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Friday, January 23, 2015

Circle of Hands: impressioni alla lettura

Circa una settimana fa, su un forum, il mio amico Antonio chiedeva le prime impressioni di chi avesse già letto Circle of Hands di Ron Edwards. La mia risposta ha finito per essere quasi una recensione (del volume; non del gioco, che non ho giocato): eccola.

Interessante, stimolante alla lettura sotto molti aspetti, difficile (o almeno, mi fa l'impressione di un gioco difficile da portare al tavolo e da imparare, principalmente per via di come è fatto il manuale).
Si tratta di un volume di 220 pagine, di cui - tolte varie appendici anche interessanti e piacevoli - 160 circa sono l'effettivo manuale del gioco. Per i miei standard odierni, troppe! E lo dico in senso pratico: io ci ho messo giorni a leggerlo per intero, e il manuale tende a presumere che più persone nel gruppo l'abbiano letto, anzi, studiato con attenzione: perciò è chiaro che prima di poter cominciare a giocare la cosa deve essere programmata con largo anticipo. :(
In un certo senso, il gioco è un aggiornamento di un design "giovanile" di Edwards degli anni Novanta (il cui manoscritto integrale è presentato fra le appendici) per un gioco "fantasy". Dell'originale mantiene più o meno (a prima vista anche molto da vicino, poi ci sono variazioni sottili) quelle che io tendo a chiamare "le rotelle piccole": tiri di dadi, punteggi e simili meccanismi. In tono con questo retaggio, il manuale comprende cose come liste di incantesimi e un bestiario…
In realtà sono state rifatte (o, meglio dire, fatte da zero, dato che queste cose negli anni Novanta non si mettevano per iscritto) le "rotelle grandi": le macrostrutture di gestione della "campagna" e preparazione per la sessione (in inglese "venture"), le indicazioni tematiche e contenutistiche, tutto ciò che effettivamente dà al gioco un indirizzo preciso. Si tratta di un gioco inquadrabile, a parer mio, nella grande "famiglia" di Trollbabe: il GM prepara ogni volta una nuova location in cui esistono delle situazioni di conflitto fra PNG e il gioco consiste nella "collisione" fra i PG (estranei alla vicenda) e il materiale preparato. I PG sono, all'inizio della prima sessione, tratteggiati in maniera abbastanza schematica, perché è nel proseguire del gioco che acquistano maggiore consistenza (attraverso le loro scelte morali, tiene a specificare Edwards), e in definitiva questa "creazione dei personaggi" protratta nel tempo è il fine del gioco.
All'interno di questa famiglia di giochi, CoH presenta elementi specifici di forte originalità, in particolare il pool di PG (dovrei chiamarlo cerchia): nella prima sessione ciascun giocatore, compreso il GM, crea autonomamente 2 cavalieri, e dalla cerchia di protagonisti così costituita ciascun giocatore sceglierà di volta in volta quale giocare, con l'unico limite di non poter scegliere lo stesso PG due volte di seguito. Questo punta a de-enfatizzare la corrispondenza giocatore-personaggio e far acquistare ai cavalieri un protagonismo anche maggiore, man mano che un personaggio "preferito" passa da un giocatore all'altro con la propria storia di scelte passate. Un altro effetto della cerchia di PG è permettere la morte come esito di un conflitto (la storia di quel singolo personaggio finisce, senza "danni" a lungo termine per i giocatori): cosa che, nella visione di Edwards, permette di dare maggior peso alle scelte fatte durante il gioco.
La creazione iniziale dei personaggi, comunque, ha una forte componente casuale. A occhio, questa impatta per almeno il 50%. Ciò valga come avvertimento: non è consentito dalle regole del gioco arrivare alla prima sessione con un "concept" di personaggio da sviluppare; il compito del giocatore è piuttosto "leggere" una personalità in un set casuale di numeri (che determinano anche fattori come la regione di nascita, l'atteggiamento o i segni particolari) e stabilire perché questo particolare individuo si sia unito alla cerchia dei cavalieri-maghi di Rolke. L'enfasi, come già detto, è tutta su come i PG diventeranno - o sulle personalità che riveleranno - mediante le scelte che i giocatori faranno per loro durante le "venture".
Una forte casualità è prevista anche nel lavoro di preparazione del GM: questi infatti prepara da 1 a 3 "fronti" (per usare un termine di AW), ma è un tiro di dadi a dirgli quanti e di che tipo. Compito del GM è sviluppare questi semi in una situazione con alcuni PNG, ma senza esagerare (in uno di molti modi in cui sarebbe possibile "esagerare", su cui il manuale si dilunga parecchio). Mi pare un compito abbastanza interessante, paragonabile a creare la città in DitV, ma intenzionalmente meno organico, e penso proprio per questo potenzialmente più semplice e veloce: pronostico in 30 minuti il tempo medio di preparazione di una "venture", tutto compreso.
Al GM si richiede in particolare una rigorosa disciplina di non ingerenza: una volta preparati i materiali per la "venture" secondo le istruzioni, deve giocare tutti i PNG come personaggi e, in aggiunta a questo, inquadrare le scene secondo necessità con un occhio di riguardo ai "cross" - gli incroci coincidentali fra le vicende simultaneamente in corso. Deve astenersi dal prendere qualsiasi altra decisione che non sia giocare i propri personaggi come tali, dal tentare di dettare il ritmo della sessione, ecc. Per il mio gusto, quello del GM in CoH sembra un gran bel ruolo, in linea con quello del Maestro di Cerimonie in AW ma più leggero, con un minor numero di compiti.
Il manuale suggerisce invece che non spetti al GM stesso il compito di "esperto del sistema", in particolare nei combattimenti, ma che sia un altro giocatore a farsene carico. Purtroppo, un esperto del sistema serve eccome! La cosa che più mi spaventa in CoH è che il suo retaggio da gioco statunitense degli anni Novanta porta a meccaniche con un numero per me eccessivo di parti mobili, punteggi variabili e dettagli da ricordare. Il manuale da questo punto di vista è mal organizzato (sarebbe stato di grande aiuto un indice analitico! e magari anche un po' di accessori da stampare a parte la scheda del PG) e il rischio è che le prime sessioni si risolvano in un continuo sfogliare alla ricerca della regola per il caso particolare, salvo dimenticarne comunque la metà quando in retrospettiva sarebbe stato importante. Per esempio, temo che non mi azzarderei a giocare senza prima prepararmi uno schema a parte con tutti i casi particolari in cui un PG tira in svantaggio (con 1d6 invece che 2d6).
Pavento in particolare la risoluzione dei combattimenti, per la durata in tempo reale che potrebbe avere al tavolo. Le meccaniche sono raffinatissime… per un gioco degli anni Novanta, ma il loro retaggio si sente. Il sistema di iniziativa, per esempio, è intrigante e sofisticatissimo, con l'opzione di spendere punti di Brawn (all'atto pratico, PF nonché punti magia) per agire prima degli avversari, la dichiarazione dell'intento successivo inclusa nella risoluzione per dare un senso di simultaneità e il concetto del "cerchio" per tener traccia del continuo spostamento dell'ordine d'azione. Tuttavia, nell'anno 2015, ho davvero bisogno di un "sistema di iniziativa"? Di risolvere una scena di combattimento tirando dadi, facendo calcoli e aggiornando punteggi per ogni maledetto scambio di colpi? Per come è concepito questo gioco, purtroppo, sì, perché round dopo round, in relazione alle ferite subite, si presenta anche la scelta di utilizzare la magia, che è contemporaneamente tattica e morale (su questo tornerò)…
…Ma questo significa anche che, in soldoni, io non giocherò questo gioco. Non con il mio "gruppo" attuale, comunque, che ha come nocciolo il terzetto io, Barbara e Alessio, perché già ci siamo annoiati quasi a morte quando nel corso della nostra (altrimenti emozionantissima) saga di Sorcerer ambientata a Firenze ci siamo trovati, fortunatamente per due sole volte, a dover risolvere due scene di "combattimento" con numerosi PG, PNG e/o demoni coinvolti.
L'ambientazione di CoH si compone di due elementi che interagiscono: il substrato pseudo-storico e la presenza della magia.
La magia è definita come una forza aliena e disumanizzante. Nello specifico sono presentate due fazioni o forse forze cosmiche in conflitto, la magia nera e quella bianca, che possono ricordare lo scontro fra la "legge" e il "caos" nella concezione originale di Moorcock (per chi ha letto la saga di Elric): una delle due fazioni è forse più apprezzata dal PNG medio (la magia bianca può guarire da ferite e malattie) ed entrambe hanno convinti seguaci con un certo potere politico su scala locale, ma in ultima analisi sono due forze ugualmente terribili e distruttive per l'umanità. Questo approccio imprime all'ambientazione di CoH una piega "horror", in senso lato, che si riconferma anche in come sono trattate le varie creature nel bestiario: come elementi di trama, ciascuna con una scaletta per la tipica escalation della sua interazione con una comunità umana.
Ciò che comunque porta la magia in tutte le sessioni, anche quando non "risultano" maghi PNG o mostri dalla preparazione, è la presenza dei PG stessi. Il Circolo di cui fanno parte, infatti, è definito nell'ambientazione proprio dalla caratteristica unica di utilizzare sia la magia nera, sia la magia bianca. Questo perché il nuovo Re a cui ubbidiscono (una figura che, per esplicita indicazione di Edwards, deve rimanere sempre sullo sfondo e mai essere portata in scena) considera entrambe le fazioni di maghi come dei nemici, ma - a differenza per esempio della religione popolare, che nell'ambientazione insegna a diffidare della magia - ha deciso di sconfiggerle nel loro stesso gioco, impiegando opportunisticamente i poteri della magia bianca e nera uno contro l'altro per distruggerle entrambe! Di conseguenza, i PG con un background come "maghi" sono presumibilmente gli individui più potenti dell'ambientazione, avendo accesso all'intera lista degli incantesimi — tutti i PG hanno comunque la capacità di utilizzare alcuni incantesimi di entrambe le discipline.
I PG sono invitati ad utilizzare la magia in maniera tattica, fregandosene delle "filosofie" dei maghi PNG che sono, in definitiva, i loro nemici designati. Ogni volta che usano gli incantesimi accumulano però punti di colore bianco o nero: eccedere in una direzione o nell'altra porta ad acquisire potenti "doni" magici, ma anche a subire sgradevoli trasformazioni fisiche e infine a "trascendere" l'umanità per diventare qualcosa di mostruoso. Solo bilanciando strategicamente l'uso di incantesimi bianchi e neri, i PG possono continuare a lungo a camminare sul filo del rasoio, mantenendosi umani o, almeno, in possesso del proprio libero arbitrio (a seconda di come gioca coi punti, a lungo termine, un PG potrebbe anche trasformarsi in una potentissima abominazione a malapena umana con caratteristiche sia "infernali" sia "celestiali").
Tutto questo tema della magia disumanizzante, fonte di potere e causa di orrore, rende quasi obbligato un confronto con Sorcerer… Che, per il momento, mi sembra rimanga il gioco superiore, da questo punto di vista. Principalmente perché in Sorcerer è il gruppo di gioco a definire l'umanità e l'esatto senso in cui i demoni sono aberranti, mentre in CoH gli estremi della magia bianca e nera sono già descritti da Edwards, ritagliando una definizione implicita di umanità "preconfezionata" dall'autore. Il tutto mi risulta comunque abbastanza intrigante, ma non spero che possa raggiungere le stesse vette di viscerale e personale del suo primo gioco.
A completare la definizione di "umanità" c'è la società pseudo-storica delle Crescent Lands, descritta con una certa dovizia di dettagli. Da un lato credo che questo sia l'aspetto più attraente di tutto il gioco, ed anche il punto di maggior rottura con le convenzioni inveterate dei gdr fantasy (quel che io chiamo "western con le spade")… Ron parla di una società "dell'età del ferro", o "pre-medievale"; considerate le sue fonti dichiarate (anglo-sassoni e popolazioni baltiche pre-cristiane) io troverei più corretto parlare di "alto medioevo" in regioni periferiche dell'Europa settentrionale, lontane dai grandi imperi, ma tant'è. Comunque, parliamo di una civiltà realmente priva di ogni pretesa d'autorità centrale e, soprattutto, di un'economia che non vede la circolazione di alcuna valuta monetaria o equivalente. Si tratta di qualcosa di così radicalmente diverso da ogni realtà socioeconomica plausibilmente nota ai giocatori (salvo specialisti) che, anche quando ci sono le buone intenzioni, non ho mai visto raffigurare al tavolo con successo un'ambientazione simile. E infatti quel che mi piace è che il manuale fornisce alcuni buoni strumenti per riuscire nell'impresa! In particolare, il mio passaggio preferito è la spiegazione dettagliata di com'è viaggiare da un luogo all'altro in questa società, e di che cosa significa in pratica essere ospitati in una comunità: spiegazione che si traduce in indicazioni molto concrete su come inquadrare le prime scene di una "venture", in base allo strato sociale dei PG. In questo modo, ci sono le basi per portare le peculiarità dell'ambientazione in gioco.
Purtroppo, e nonostante questa perla, temo che l'impresa sia comunque troppo ambiziosa. L'ambientazione è descritta per pagine e pagine in elevato dettaglio, con elementi che - come per le regole - appaiono qua e là anche in contesti inaspettati. Qualche dettaglio sulle armi o sulla guerra che si nasconde in mezzo alle regole del combattimento, forse, o la presenza di animali addomesticati molto strani in alcune regioni, menzionata solo nella sezione "mostri" del bestiario… Nel complesso, una conoscenza completa dei vari aspetti per poterli effettivamente utilizzare al tavolo richiederebbe a tutto il gruppo la lettura completa del manuale (cosa che, in vita mia, non ho mai visto accadere - forse gioco con persone che hanno troppi altri hobby oltre questo?); in mancanza di ciò, qualcuno si ritroverà a fare "l'esperto dell'ambientazione", tediando tutti (e probabilmente con conflitto di interessi se questa persona è il GM). L'alternativa è che la maggior parte di queste informazioni di ambientazione vengano semplicemente ignorate, col rischio di andare a perdere quella che potenzialmente sarebbe una delle maggior peculiarità e ricchezze del gioco. Del resto il manuale consiglia che tutti abbiano letto le due o tre pagine di carrellata iniziale su regole ed ambientazione assieme, e che questo possa bastare… E probabilmente può, nel senso che si potrebbe trattare dei temi centrali del gioco anche in un'ambientazione pseudo-storica diversa, o in quella che il gruppo inevitabilmente si costruirà da solo a partire da quella manciata di suggestioni iniziali. Ma allora, perché investire decine di pagine nel parlare di dettagli che non verranno usati?
Insomma, alla fine questo gioco ripropone quello che - almeno nella mia esperienza personale - è l'annoso problema di tutti i gdr con "ambientazione originale e dettagliata": come portare questa ambientazione effettivamente nel gioco? E non riesce a risolverlo, forse neppure ci prova, riproponendo le stesse non-soluzioni che si sono sempre viste: tante pagine da leggere, ma consigli pratici per utilizzarne in maniera reale solo alcuni stralci. Di quella parte, geniale, sull'ospitalità e l'essere stranieri in una comunità locale farò sicuramente tesoro — per utilizzarla in altri giochi con ambientazioni alto-medievali, come per esempio Sagas of the Icelanders. Ma non riuscirò mai ad interessare qualcuno del mio gruppo a studiarsi un'ambientazione, per quanto interessante e ricca di spunti geniali, per poter giocare a un gioco, né tantomeno a sopportarne il mio "spiegone" riassuntivo modello conferenza (lo dico per esperienza: ci siamo già scottati con l'ambientazione - interessantissima e in definitiva completamente inutile - di Human Contact, che infatti fu riposto con sconforto sullo scaffale per tornare a giocare a Shock "liscio", dove tutta l'ambientazione necessaria la si crea assieme in max. 15 minuti). Peccato!
Del resto, tutto il manuale pecca - per come la vedo io - di stile e di linearità dell'esposizione. Come ho già detto e ribadito, le informazioni di tutti i tipi sono organizzate secondo una logica non sempre intuitiva, senza un indice che permetta di ritrovarle all'occorrenza. Ci sono continue polemiche ed invettive su come non si deve giocare, o su come un ipotetico lettore proveniente da altri giochi potrebbe erroneamente credere di dover giocare, che solo raramente aggiungono davvero chiarezza su qual è invece il modo "giusto" di giocare a CoH. Diciamo che l'obiettivo del testo sembra essere principalmente quello di comunicare la "visione" artistica dell'autore, e in questo probabilmente ha successo, ma in quanto manuale lo trovo debole sia come testo di riferimento, sia come testo di insegnamento. Niente di paragonabile alla linearità e alla chiarezza degli scritti recenti di Baker, Lehman, Morningstar, Mcdaldno, ecc., che ti dicono punto per punto come allestire il gioco e come giocare. Qui si ha più l'impressione che per imparare a giocare a CoH tu debba studiare: rileggere questo volume (che fa poco sforzo per insegnartelo) sottolineando e prendendo appunti, crearti da te i tuoi handout (anche se debbo spezzare una lancia a favore della scheda del PG, che sembra un ausilio efficiente alla creazione del personaggio, con elencate la maggior parte delle informazioni salienti) ed infine sperimentare.
Quindi: interessante, ma faticoso. Forse troppo, e non sono del tutto convinto che nel mio caso, col mio gruppo, ne valga davvero la pena.

Saturday, June 7, 2014

[Commenti Game Chef] La Città di Giuda, di Daimon Games


Sono in ritardo nel mettere per iscritto le recensioni, ma non nel farmi un’opinione sui giochi. Per il ciclo “valutazioni del Game Chef 2014 italiano” proseguo con “La Città di Giuda”, di uno o più autori che si presentano sotto lo pseudonimo “Daimon Games”. Dai dati di contatto posso desumere nome e cognome di una persona che, peraltro, conoscevo solo di nome, ma per il resto questo è il mio primo incontro con DaimonGames: in un secondo tempo probabilmente scaricherò e leggerò i vari giochi proposti sul suo/loro sito.

Presentazione

“La Città di Giuda” è un gioco di ruolo di impostazione alquanto tradizionale, incentrato sulle violente e pericolose avventure di un manipolo di mercenari affiliati all’organizzazione paramilitare del Pugno di Ferro, ambientato in una versione fantasy dei regni crociati nel Levante medievale. I meccanismi e gran parte della struttura sono una modificazione di quelli di Apocalypse World (l’omaggio è evidente, seppur non esplicitamente dichiarato).
Il tutto è presentato come due fogli fronte-e-retro competentemente impaginati: una scheda del personaggio che riporta sul retro le regole per il giocatore e un secondo foglio che descrive l’ambientazione e presenta le istruzioni per “il Master”. Con ciò sembra inquadrarsi nel filone di quei “micro-giochi”, come Lasers & Feelings oppure Ghost Lines di John Harper o Cthulhu Dark di Graham Walmsley, che attraverso rimandi ad una consolidata tradizione orale cercano di presentare un “manuale” quanto più completo possibile nel minimo dello spazio (e in ciò non sono da confondere con altri “micro-giochi” in cui l’esposizione incompleta è considerata parte del design, come Ghost/Echo sempre di Harper, o in cui è il focus molto definito a consentire la brevità di esposizione, come What is a Role-playing Game? di Epidiah Ravachol). L’impatto visivo è gradevole sullo schermo, ma, poiché i due fogli sono chiaramente destinati ad essere stampati, temo che la scelta del testo bianco su fondo nero non sia stata lungimirante.

Un’impostazione tradizionale

Quando parlo di impostazione “tradizionale” mi riferisco principalmente al gruppo di personaggi alleati fra loro, ciascuno di proprietà di un singolo giocatore, che affrontano una sequenza di “avventure” dal contenuto spesso violento. Aspetti tecnici generalmente collegati alla medesima tradizione, e presenti infatti anche ne La Città di Giuda, sono il ruolo del “game master” che ha il controllo assoluto su tutti i personaggi secondari, gli sfondi, i retroscena, ecc. e gioca anche un ruolo chiave di “arbitro” nelle meccaniche di risoluzione, e la prospettiva di giocare sessioni multiple con i medesimi personaggi, senza un’indicazione a priori di quando il gioco debba concludersi.
“Tradizionale”, per definizione, significa solido, perché ben collaudato; significa anche individuare un implicito target del gioco in coloro che in quella tradizione si riconoscono. Non sono estraneo a questa tradizione: è l’ambiente da cui provengo, e in essa mi sono riconosciuto per molti anni. Ragion per cui mi sento in grado di giudicare gli aspetti più tecnici de La Città di Giuda tenendo conto della fascia di pubblico a cui mi sembra essere rivolto.
L’aderenza ad una tradizione, beninteso, può portarsi appresso anche dei vizi radicati. Nel caso de La Città di Giuda, per esempio, mi colpisce negativamente il ricorrere di espressioni quali “a insindacabile giudizio del Master”… Perché mai occorre specificare “insindacabile”? Se si “spreca” una parola per questo, quando lo spazio sulla pagina è tanto tiranno, secondo me significa che ci si aspetta (come un fatto del tutto normale) una situazione di conflittualità fra i giocatori al tavolo. Personalmente io non credo (non più) che si possa pretendere di giocare in una situazione in cui un giocatore contesta le decisioni di un altro: in un ambiente di gioco “sano”, a mio avviso, tutte le decisioni sono appellabili, ma nessuna viene mai contestata in modo capzioso, perché sussiste una solida unanimità di intenti (senza la quale il gioco di ruolo sarebbe una fatica invece che un piacere).
Ho l’impressione che, come testo, La Città di Giuda sia diviso tra due “anime” che cercano di trascinarlo in direzioni diverse: l’esempio di Apocalypse World e le aspettative della tradizione.

La meridiana delle azioni

La “meridiana delle azioni” costituisce la più appariscente variazione rispetto alle meccaniche di base di Apocalypse World. Si tratta comunque di un metodo per risolvere o indirizzare un conflitto determinando in quale di tre “fasce” (dalla più favorevole alla meno favorevole al personaggio del giocatore che tira i dadi) si collocheranno le conseguenze di una mossa, ma il funzionamento della meridiana promette maggiore character-effectiveness (probabilità che il personaggio “abbia successo”) a quei giocatori che manifestano maggior varietà di modi d’agire.
Una possibile applicazione è in un contesto, come l’ho definito, pienamente “tradizionale” e per certi versi conflittuale, in cui il “successo” nell’azione è ambito, mentre la varietà di descrizione è vissuta come una “fatica” e i giocatori tendono quindi a ripetere sempre le stesse frasi formulaiche. In tal caso, la struttura della meridiana è un incentivo (sicuramente migliore di un “bonus all’interpretazione”) ad escogitare qualcosa di sempre diverso, adeguandosi alle restrizioni che l’attuale posizione sulla meridiana impone. Alla lunga, però, poiché il difetto nel caso in esame sta nella discrepanza di obiettivi estetici fra i giocatori, un meccanismo di gioco non potrà risolverlo davvero e si ricadrà, semplicemente, in un formulario più ampio.
Le modalità d’azione scritte sulle “ore” della meridiana sono dei descrittori vaghi che ricordano “caratteristiche” del personaggio in giochi di ruolo che definirei di formulazione superata: attingono alla visione stereotipata di una persona fratturata in qualità quantificabili, per cui “agire con intelligenza” è cosa distinta dall’agire “con coraggio”… Tuttavia, la rotazione sulla meridiana è comunque un passo avanti evolutivo rispetto ai sistemi di gioco in cui queste qualità erano fissate alla creazione del personaggio, così che il personaggio di un giocatore era premiato se agiva sempre e solo “con intelligenza” e un altro sempre e solo “con coraggio”. Ma le vere potenzialità latenti di un meccanismo come questo sono ben altre, ancora poco sfruttate ne La Città di Giuda…
Una delle modalità d’azione, infatti, è diversa dalle altre: “stregoneria” (sul numero 9). La mia interpretazione è che usare “stregoneria” come modalità d’azione costi sempre e comunque un punto di Dannazione (un prezzo salato). Ed ecco ciò che secondo me è cruciale: le modalità indicate sulla meridiana sono il corrispettivo delle “mosse base” di AW. La scelta autoriale di cosa scrivere in corrispondenza dei vari numeri indirizza e confina le azioni dei personaggi entro limiti che definiscono il “mondo” del gioco, e può anche forzare i giocatori verso scelte importanti e difficili. Questo è un potenziale che mi piacerebbe vedere più consapevolmente utilizzato.
Per prima cosa, però, sarebbe urgente trovare un linguaggio per indicare *quando* fare ricorso alla meridiana. Al momento il testo dice: “Tutte le azioni, compreso colpire un nemico, ucciderlo o metterlo fuori combattimento, vengono eseguite sulla Meridiana”; e “Quando un personaggio compie un’azione, come prima cosa deve dichiarare cosa intende fare e come farlo, scegliendo il valore appropriato sulla Meridiana delle azioni.” La scelta di parole, secondo me, è infelice. Intendere “tutte le azioni” alla lettera sarebbe semplicemente inapplicabile, il che fa di “azione” un termine estremamente ambiguo: io sceglierei di leggerlo come “conflitti”, ma potrebbe parimenti essere inteso come “quando lo dice il master”. In definitiva, davanti a un testo del genere ogni tavolo deve trovare da sé il proprio standard.

Fasi lunari, missioni e preparazione

Anche per quanto riguarda il contenuto delle sessioni ciascun tavolo è lasciato a decidere da sé il proprio standard, e questo rappresenta una lacuna importante. Di momento in momento, il master ha degli obiettivi da porsi (“Dipingi uno scenario fantastico, ma usa il sovrannaturale con parsimonia. Trasmetti un senso di mistero e minaccia.” ), più che avere dei principi cui attenersi per raggiungerli. Più in generale, mi sembra che i tre livelli di “agenda” (obiettivi), “principles” (principi) e mosse dell’MC, propri di Apocalypse World, siano stati a volte rimescolati fra loro nei paragrafi “Scenario”, “Le tue armi” e “I tuoi colpi”: enunciazioni di principio come “Tutti hanno un prezzo” e “Usa il pugno di ferro nel guanto di ferro” non sono ben raggruppate con mosse quali “Inducili in tentazione ” e forse dovrebbero invece trovarsi a un livello intermedio con altri buoni principi come “Sii pronto a cambiare idea e a essere sorpreso. ”
Bello il “calendario lunare”, controparte della meridiana, su cui determinare casualmente per ciascuna sessione di gioco l’influsso e la potenza delle forze del male. Trovo lo spunto affascinante, in particolare per l’esplicita rinuncia al controllo: immaginando me stesso come master del gioco, il lancio del dado per determinare la fase lunare avrebbe per me sia il piacevole valore psicologico di scaricare sul caso la responsabilità per la pericolosità dello scenario, sia il potente valore rituale di affermare il potere immaginario delle forze del male come qualcosa di superiore alla possibilità di controllo dei giocatori tutti, me compreso. Peccato invece che le fasi lunari, poi, si traducano meccanicamente solo in occasionali modificatori negativi sulla risoluzione delle azioni: una parte di me vorrebbe vedere qualcosa di più integrato, le due “ruote” girare insieme come un unico meccanismo. In alternativa, preferirei che la fase della luna non toccasse mai direttamente il meccanismo di risoluzione, ma che invece si riflettesse esclusivamente sul contenuto degli scenari.
Il Pugno di Ferro, di cui i PG per definizione fanno parte, è un’organizzazione studiata apposta per non avere mai problemi di “adventure hook”: al contempo mercenari ai limiti della legalità, ma obbedienti a una gerarchia (“Il prezzo viene concordato con gli ufficiali del Pugno di Ferro e non con i personaggi”) e ammantati dell’aura di un ordine militante che combatte i demoni. Questa caratterizzazione consente al master di mettere i personaggi dei giocatori di fronte a un incarico, qualunque esso sia, perché tali sono gli ordini, applicando la motivazione della lealtà militare anche a missioni che di militare non abbiano nulla. È una soluzione intelligente alle problematiche tradizionalmente associate con il “gruppo di avventurieri”.
Ma rimango con la domanda: queste missioni vanno in qualche modo “preparate”? L’accenno a ricerche “sul web” di “mostri mitologici” mi fa pensare a un master che, qualche tempo prima della sessione, prepara in solitudine degli appunti, con una “missione” che poi assegna ai PG attraverso la gerarchia del Pugno di Ferro. Ma allora, come si preparano? Senza indicazioni su quanto e cosa decidere, scrivere, senza una scaletta, una procedura, resta in bianco una parte centrale del game design, rimettendosi in pratica (come per l’indicazione di quando ricorrere ai dadi) alle tradizioni di gioco già esistenti.
Se è prevista preparazione, oltretutto, questa come si concilia con il calendario lunare? Dovrei tirare il dado per stabilire la fase lunare in anticipo (diciamo, alla fine della sessione precedente) e di conseguenza preparare uno scenario adatto alla fase lunare che verrà (un problema puramente umano, senza interferenza delle forze del male, se è il plenilunio; un diretto attacco demoniaco nel mondo terreno al novilunio)? Oppure dovrei escogitare uno scenario “agnostico” rispetto alla fase lunare, e solo all’inizio della sessione tirare il dado? In quest’ultimo caso, dovrei preparare uno scheletro di scenario che, a seconda della fase lunare, andrà cambiato in corsa in modi specifici. Entrambe le prospettive sono intriganti, ed è anche per questo che mi piacerebbe conoscere la metodologia impiegata dall’autore o dagli autori al loro tavolo, e vederla sintetizzata nei fogli di regole.
Se, viceversa, ci si aspetta che il contenuto del gioco sia interamente improvvisato senza preparazione, allora alle fasi lunari potrebbero corrispondere delle linee guida, dei semi o degli spunti. Forse anche sezioni differenziate nella lista delle mosse del GM, “colpi” speciali disponibili solo sotto una certa luna? Sarebbe anche molto utile avere un punto di partenza: delle linee guida per la prima sessione, per come usarla per dare il via al gioco e improvvisare di conseguenza gli scenari delle sessioni successive. Magari perfino una “prima missione” prefissata, un punto di partenza fisso per tutti i gruppi di gioco, con linee guida su dove la “storia” creata insieme possa poi dirigersi a seconda delle prime scelte fatte dai giocatori.

De brevitate

A molte delle critiche che ho fin qui formulato in questa recensione, evidenziando lacune nel design, si potrebbe tentare di replicare che sono vuoti di esposizione dovuti all’esiguità del testo. Senza dubbio La Città di Giuda si presenta come un “libro” molto piccolo; e invero questo è un gran pregio, perché all’atto pratico i libri vanno letti, ricordati e continuamente consultati come riferimento e tutte queste operazioni diventano più lente e difficili quanto più grande ne è la mole. Tuttavia, a seconda di come si ottimizza la presentazione delle informazioni, lo spazio di quattro pagine può contenerne da poche a moltissime: da questo punto di vista, c’è margine per migliorare, tagliando delle ridondanze e ricavando così lo spazio per comunicare ciò che manca.
La prima facciata occupata da una “scheda del personaggio” è, allo stato attuale, un’occasione mezza sprecata. Le annotazioni a margine dei vari spazi in cui scrivere, infatti, trasmettono già gran parte delle regole d’interesse per il giocatore, e in particolare la quasi totalità dei meccanismi di risoluzione delle azioni. Perché, allora, le stesse regole sono ripetute sul retro della pagina, in forma più discorsiva? Suggerirei di eliminare questa ripetizione, controllando che sulla facciata “scheda” ci sia tutto il necessario, e probabilmente spostando qui (lo spazio per farlo non manca) anche le regole relative all’evoluzione del personaggio (tutto ciò che è punti Esperienza, Fato e soprattutto Dannazione).
Lo spazio così ricavato sul retro del foglio per tutti i giocatori potrebbe essere utilizzato per le informazioni di ambientazione (che non c’è particolare ragione di riservare al GM), e così sul foglio del GM si libererebbe spazio per trattare della preparazione degli scenari e simili questioni irrisolte.

Qualche pizzico di speziato oriente

C’è molto che mi lascia perplesso nel, pur breve, trattamento dell’ambientazione. Forse l’autore o gli autori si sono cimentati nel genere fanta-storico senza fare ricerche adeguate… Fare poche ricerche sarebbe anche veniale nella tempistica di un Game Chef, ma quando si coinvolgono elementi di storia e geografia del mondo reale senza conoscerli bene si rischia di scadere (come qui purtroppo accade) in stereotipi triti ed anche offensivi. Uscire dagli ambiti che meglio si conoscono, quando il tempo per informarsi a fondo manca, è purtroppo un grosso azzardo: si rischia di sprecare gli spunti più interessanti seppellendoli sotto la vergogna di un’esecuzione superficiale, grossolana.
Lo spunto de La Città di Giuda parte da una lettura letterale della storia religiosa cristiana (l’intervento di Gesù per salvare l’umanità tutta dal peccato originale) e qui innesta lo stravolgimento che dà inizio a una storia alternativa: Gesù non risorge dalla morte, e di conseguenza tutto cambia. Da un punto di vista sovrannaturale, non essendo Gesù riuscito a “vincere la morte”, le forze del male rimangono libere di intervenire direttamente nel mondo, anche manifestandosi come mostri e demoni in forma fisica che in questo gioco sono i più temuti antagonisti. Dal punto di vista fanta-storico, invece, è la religione cristiana a non costituirsi, cosa che attraverso una serie di salti logici porterebbe alla situazione etnica e politica descritta nel testo d’ambientazione e in qualche modo anche all’esistenza del Pugno di Ferro.
Parlo di “salti logici” non solo perché l’effettiva e comprovata resurrezione di Gesù non mi sembra premessa storicamente necessaria alla nascita del suo culto, né semplicemente perché mi è poco chiaro come la figura di Giuda “simbolo di una condizione umana destinata a inevitabile dannazione” diventi, con queste premesse, oggetto di “adorazione” (anche se trovo molto suggestiva l’immagine di questo cupo culto dell’impiccato, simboleggiato dall’albero e dal cappio di corda)… Potrei anche chiedermi come, da questa premessa, discenda una maggior violenza degli “eredi del decaduto Impero Romano” nella regione palestinese (“Gerusalemme distrutta negli scontri”), o che l’ebraismo sia stato “estirpato” dalla dominazione romana anziché inglobato come minoranza religiosa; per un attimo mi sono domandato perfino come “misteriosi accenni alla cabala” possano essere sopravvissuti a questo scempio se è vero che, come ricordo, la cabala è uno sviluppo medievale dell’ebraismo e quindi in epoca romana non esisteva ancora. Ma no, non sono uno storico del Vicino Oriente antico (sono uno storico del cosiddetto “Estremo Oriente”) e non mi fisserò su nessuno di questi punti pretendendo d’aver ragione: non senza prima aver fatto ricerche specifiche. Licenza d’artista è licenza d’artista, oltretutto, e qui siamo dichiaratamente di fronte a un “fantasy”. Quello che mi cruccia è ben altro, invece, e non penso occorra una laurea in Storia per accorgersene…
La vera domanda è, se mai: date queste premesse, da dove salta fuori un PG biondo di nome Federico? Visto che le “invasioni barbariche” non sono un evento del passato, ma sono ancora in corso, e visto che i “Selvaggi” provenienti dal nord in questo gioco hanno una caratterizzazione del tutto a-storica, non si capisce allora da dove gli abitanti della Città di Giuda “discendenti dai romani” abbiano preso la loro “pelle più chiara”, tratti come “capelli biondi” o “occhi chiari”, e i loro nomi franco-germanici (tutti i nomi d’esempio nella relativa lista tranne “Gaia”, che è latino). Per contro, i “Locali”, di cui si evidenzia il retaggio “semitico”, sono caratterizzati esclusivamente con stereotipi razzisti come “pelle olivastra”, “naso appuntito”, “superstizioni” e “una speziata saggezza mediorientale”… Una **speziata** saggezza mediorientale?! Come dicono i giovani d’oggi: FACEPALM.
I nomi franco-germanici non sono spiegabili, punto. Il colore della pelle, purtroppo, sì, ma preferirei il contrario. L’autore o gli autori del gioco stanno evidentemente aderendo ad una dottrina hollywoodiana delle “razze” per cui i “romani” erano “bianchi” (non sono forse gli antenati diretti dei “bianchi” europei?), e non, come vorrebbe il buonsenso, dello stesso “colore” di tutti gli altri abitanti del bacino del Mediterraneo. Simili fandonie hanno implicazioni politiche non trascurabili quando le racconta Hollywood, ma hanno anche altre, gravi implicazioni politiche quando ce le raccontiamo noi italiani, perché la convinzione di “discendere” in qualche misura dai romani è profondamente radicata nella nostra cultura popolare, non un’esclusiva della retorica fascista. Immaginarci un impero romano di uomini “bianchi” che colonizza o invade una Palestina abitata da persone “olivastre” per noi italiani non è un errore “neutrale”, perché corrisponde a un immaginario razzista tuttora strumentalizzato nel discorso politico (per esempio dalla Lega): l’idea che “noi siamo bianchi”, mentre “altri”, provenienti da oltre un confine arbitrario tracciato a Sud di dove stiamo “noi”, “sono negri”. Attenzione, quindi.
Per di più, forse l’autore o gli autori non si rendono conto (diciamo che spero non se ne rendano conto) di altre possibili implicazioni politiche delle loro scelte di nomenclatura. Storicamente l’associazione con la figura di Giuda è stata utilizzata nell’Europa cristiana per vilificare, simbolicamente, la minoranza ebraica; in questa ambientazione, invece, in cui Giuda viene in qualche modo riscattato (sia pure come simbolo di ogni sfiga, ecc. ecc.) il nome “Uomini di Giuda” non appartiene ai “locali”, ai “semiti”, ma a “bianchi” europei biondi con nomi germanici. “La dominazione romana ha estirpato l’antico ebraismo ”, dice il testo: sembra che l’abbia estirpato così a fondo da annullare ogni possibile identità ebraica, spargendo un po’ di sale sulle rovine bruciate per buona misura. Ci restano solo dei “Locali”, popolazioni di etnia “semitica” ma a cui non sembra necessario dare un vero e proprio nome.
Poi ci sono i “Selvaggi”… Perché non “barbari”, che almeno è termine comunemente usato nella storiografia tradizionale? Tanto, il testo contiene comunque tutti e tre gli altri ingredienti: un termine intrinsecamente offensivo come “selvaggi” rivolto ad una popolazione umana ce lo si poteva risparmiare. Qui, comunque, la faccenda si fa ancora più confusa, perché è impossibile individuare un corrispettivo storico per queste genti. Fanno le veci degli invasori dell’impero romano (storiella forse un po’ datata, ma è come ce l’hanno insegnata a scuola), ma non possono essere popoli germanici, visto che i discendenti di Roma in questa ambientazione hanno *già* nomi e tratti fisici germanici, che denotano un mescolamento già avvenuto. “Sono calati dal nord”, colpendo tutte le vestigia dell’antico impero (diamo pure per scontato che, senza il cristianesimo, con ci siano stati neppure un Costantino, un trasferimento della capitale in Grecia e un Impero Romano d’Oriente). La loro caratterizzazione esteriore è uno stereotipo razzista del popolo “fiero e primitivo”; cito: “alto, possente, imponente, capelli lunghi, lunghe trecce, occhi spiritati, pitture tribali (sic), tatuaggi rituali.” Non se ne specifica il “colore”, ma potrebbero essere tanto celti quanto apache quanto i cimmeri di R. E. Howard. Di sicuro i loro nomi (“Rumore di Tuono, Sole Splendente, Scintilla di Fuoco, Fratello dei Lupi, Miraggio Ingannevole”) sono quelli degli “indiani” di qualche vecchio film western. L’ambientazione li propone come una minaccia esterna che costringe le altre due etnie a collaborare, ma è chiaro (dai nomi e dai tratti appena riportati) che agli autori piacciono, non sono dei “cattivi”: e infatti il Pugno di Ferro, giusto per far vedere quant’è cosmopolita e trasgressivo, li accoglie nelle proprie fila, rendendo disponibili i “Selvaggi” come terza e “strafiga” opzione nella creazione dei PG.
L’ambientazione promette di essere una versione fantasy di Gerusalemme medievale e del Levante, insomma, ma per come viene trattata disattende completamente le aspettative. Il mio consiglio agli autori è di ripartire da zero: magari di ambientare *per davvero* il gioco a Gerusalemme e dintorni nel Medio Evo, con le opportune ricerche. Forse nel complesso mosaico sociopolitico dei regni crociati. E in questa ambientazione potrebbero agevolmente riutilizzare il comodo espediente del Pugno di Ferro… Potrebbe trattarsi, per esempio, di un’armata mercenaria che raccoglie guerrieri di tutte le fedi (cristiani, musulmani, ebrei, ecc.) sotto la missione comune del combattere il male incarnato sempre e comunque dalla stregoneria e dalle creature sovrannaturali; una sorta di Legione Straniera di cacciatori di mostri. In una simile ambientazione, più vicina alla realtà storica, non sarebbe comunque un problema recuperare un’idea “di colore” come il culto di Giuda pentito e suicida (potrebbe essere una dottrina interna al Pugno di Ferro, o esistere come organizzazione separata) o come la mancata resurrezione di Cristo quale giustificazione del potere demoniaco (checché ne pensino, all’interno della fiction, i personaggi delle varie fedi).
Mi auguro, insomma, di vedere presto una seconda versione di questo gioco, in cui ci si sarà sbarazzati degli stereotipi razzisti.

Tuesday, June 3, 2014

[Commenti Game Chef] Viaggio nelle Terre Selvagge, di Davide Cavalli


Altra recensione per il Game Chef 2014 sezione italiana: questa volta tratterò di “Viaggio nelle Terre Selvagge”, di Davide Cavalli. Premetto che non conosco l’autore (ho sentito il suo nome per la prima volta in questa circostanza) e che ciò mi fa decisamente piacere: per chi, come me, è nell’ambiente da tanti anni, riuscire ancora a incontrare persone nuove è un segno di vitalità della “scena”.

Quel che c’è

“Viaggio nelle Terre Selvagge” si presenta come un semplice prototipo costituito da due mazzi di carte e da un tabellone; su quest’ultimo sono scritti anche il titolo del gioco, la didascalia «Racconti, paesaggi ed emozioni di viaggi fantastici attraverso le terre selvagge, verso luoghi leggendari e misteriosi» e, in un angolo, alcune regole. Il tabellone è strutturato come una semplice griglia su cui disporre le carte, con frecce che connettono i riquadri (indicando i possibili “percorsi”), quattro punti di partenza contrassegnati come tali (che sottintendono quattro giocatori) e due punti d’arrivo caratterizzati solo da nomi suggestivi.
In sostanza, è chiaro che l’autore ha voluto interpretare il tema “il libro non esiste” come una riduzione al minimo del testo d’istruzioni, ricorrendo invece a mezzi non verbali per comunicare le regole e la dinamica di gioco. Per riuscire in questo, ha fatto affidamento sul vocabolario visivo dei giochi da tavola: quindi, gli spazi della stessa forma e misura delle carte suggeriscono di collocare delle carte in quegli spazi, le frecce che connettono i riquadri suggeriscono un percorso da compiere con le pedine (segnale, quest’ultimo, rafforzato dal tema del “viaggio” annunciato nel titolo) e la funzione del tabellone e degli altri componenti, quindi, appare immediatamente evidente. A mio avviso, questa operazione (l’uso del vocabolario visivo del boardgame per comunicare con immediatezza i meccanismi del gioco) ha avuto successo, ed è dove “Viaggio nelle Terre Selvagge” mi appare più riuscito, sebbene molto ancora possa essere migliorato.
Per quanto riguarda il contenuto, è chiaro dal testo delle carte, e proclamato con vigore nel sottotitolo, che il gioco vuol trattare di temi a me cari, generalmente poco sviluppati nel gioco di ruolo: il viaggio come esperienza del mondo, il paesaggio come protagonista di piena dignità, i sentimenti del viaggiatore, e così via. «[…] Avendo sempre cura di descrivere il paesaggio» non è una raccomandazione che ho incontrato spesso, fino ad oggi: in questo caso, invece, sospetto che non rappresenti un semplice dettaglio, ma invece sia per certi versi il fine del gioco.
E tutto si conclude infatti con una scelta emotiva: «Descrivi il paesaggio che vedi oltre la tua meta e decidi se narrare l’epilogo o se riprendere il viaggio», che è una maniera secondo me splendida di portare a conclusione il gioco.

Quel che manca

Manca una definizione dell’ambientazione, sebbene almeno in parte questo possa essere voluto: al di là di ciò che è suggerito dal titolo e dalle carte, si vuole forse che i giocatori inventino a ruota libera. Ma il “foglio bianco” raramente è un pregio. “Terre Selvagge” mi suona come un termine ricorrente di certa letteratura fantasy, da Tolkien in poi, con cui si indicano luoghi non necessariamente disabitati, ma sicuramente pericolosi, che necessitano di essere attraversati per raggiungere una determinata meta: luoghi in cui personaggi provenienti da un altrove “civilizzato” possono vivere delle avventure, in una concezione che mi è sempre sembrata una sorta di mescolanza fra lo “hic sunt leones” di un’antica carta geografica ed il punto di vista sul mondo extra-europeo dell’Inghilterra imperiale e coloniale. Alcuni dei testi delle carte rafforzano la mia impressione che il gioco voglia essere un “fantasy”. In un prototipo più avanzato, probabilmente, ci sarebbero illustrazioni o almeno elementi grafici ad aggiungere ulteriori suggerimenti.
Allo stato attuale, però, l’indeterminatezza dell’ambientazione si traduce nella mancanza di un punto di partenza. Immagino avrei difficoltà a seguire l’istruzione riportata sulle caselle di partenza: «Prima di cominciare descrivi le prime emozioni che provi mettendoti in viaggio.» Mi viene offerto un foglio completamente bianco, chiedendomi di disegnare qualunque cosa. Con il rischio, oltretutto, di creare qualcosa che poi avrò difficoltà a riconciliare con gli input che mi verranno dalle carte. Dare ai giocatori, in questa fase iniziale, un qualunque tipo di “seme” da cui elaborare la renderebbe una partenza più agevole.
Questo punto di partenza potrebbe essere, ma al momento non è, la definizione di un personaggio. «Prima di cominciare descrivi le prime emozioni che provi mettendoti in viaggio»: ci si rivolge direttamente al giocatore? A un personaggio attraverso il tramite del giocatore? Al giocatore attraverso l’alibi di un personaggio? Trovare il modo di chiarire questo aspetto potrebbe risolvere le due mancanze di cui sopra, e lo si potrebbe fare – nello spirito di come è stato presentato il gioco – anche senza far ricorso ad aggiunte testuali, ma mediante la componentistica. Per esempio con pedine individualizzate che rappresentino dei personaggi, o un piccolo mazzo di carte con ritratti di personaggi, corredati o meno da frammenti di testo o nomi. In assenza di simili ritrovati, esiste la possibilità (e non sono in grado di determinare se questo è proprio ciò che l’autore vuole, o se preferirebbe evitarlo) di affrontare il gioco senza alibi, trattando la pedina sul tabellone come puro avatar del giocatore che viaggia attraverso un mondo fantastico.
Manca anche l’indicazione di uno scopo: c’è solo una destinazione. L’indizio più forte di un obiettivo del gioco sta in quelle parole scritte sulle due caselle finali: «Descrivi il paesaggio che vedi oltre la tua meta e decidi se narrare l’epilogo o se riprendere il viaggio». Poiché la domanda iniziale riguardava le “emozioni”, probabilmente anche questa scelta finale ci si aspetta sia emotiva. Lo scopo del gioco, allora, sarebbe tener traccia del mutevole stato emotivo del personaggio (o del giocatore) attraverso il viaggio, in modo da avere, giunti all’ultima casella, degli elementi su cui basarsi per effettuare la scelta finale. Se questo è lo scopo del gioco, lo trovo estremamente affascinante, ma credo si debbano riempire almeno alcune delle mancanze fin qui elencate perché tale scopo possa effettivamente realizzarsi.
Quelle che ho elencato finora sono comunque mancanze veniali: vuoti di comunicazione, ma non necessariamente di design. Probabilmente l’autore ha queste cose ben chiare nella propria mente, ed è in grado di comunicarle oralmente ai giocatori, il che è sufficiente in questo primo stadio di sviluppo per iniziare a playtestare. Purtroppo, però, manca anche un meccanismo di feedback interno al design del gioco: qualcosa per cui il contenuto di ciò che i giocatori narrano possa ripercuotersi sui meccanismi di pedine e carte. Questo è ciò che rende “Viaggio nelle Terre Selvagge”, allo stato attuale, un design piuttosto debole.
Meccanicamente parlando, infatti, tutte le pedine continueranno a muoversi sempre alla stessa velocità, e a ogni giocatore viene offerta una ed una sola scelta (relativamente) significativa per turno di gioco: muoversi verso nord-est o verso nord-ovest. In alcuni turni, il contenuto di una carta o l’intervento di un altro giocatore o semplicemente la forma del tabellone toglieranno al giocatore anche questa scelta, e in tal modo un giocatore che aveva dichiarato di dirigersi verso la Falce del Fiume potrebbe terminare il gioco sulla Torre Splendente, o viceversa: ma ciò dipende fondamentalmente dal caso. Se per assurdo si omettessero tutte le descrizioni e le scenette, le pedine si muoverebbero esattamente allo stesso modo. Viaggiare da soli o insieme ad altri giocatori sembra essenzialmente ininfluente, nonostante diverse carte cerchino di forzare in un senso o nell’altro proprio questa scelta. Le varie scene che carte luogo e carte avvenimento incoraggiano i giocatori a narrare rimangono fine a se stesse: i compagni di viaggio introdotti da alcune carte sono solo dettagli di colore, ad esempio, mentre gli oggetti “che torneranno utili” sono di una futilità quasi frustrante, visto che in realtà nel gioco non ci sono né problemi da risolvere né alcun tipo di conflitti. L’unica cosa importante (se ho indovinato correttamente lo scopo del gioco) è come il personaggio del giocatore potrebbe reagire *interiormente* alle scenette narrate, cambiando i propri sentimenti rispetto al viaggio: le carte più significative, perciò, sono quelle che portano a dialoghi tra viaggiatori e a caratterizzare in qualche modo le due caselle di destinazione.
Ad ogni modo, per le ragioni appena dette, mancano dei criteri secondo cui effettuare scelte durante il gioco. Perché mai dovrei interrompere un altro giocatore usando una carta avvenimento? E perché mai *non* dovrei interromperlo? Perché andare a est invece che ad ovest? In fin dei conti, che cosa cambia? In ogni caso, reciterò o narrerò delle scenette, assisterò a delle scenette, e dopo un certo numero di turni arriverò ad una meta: a quel punto, ripensando a quel che abbiamo raccontato finora, deciderò liberamente il mio finale.
Le “mancanze” di comunicazione possono facilmente essere riempite, quindi, ma per completare davvero il design occorre che l’autore si domandi in base a quali ragionamenti desidera che i giocatori giochino o non giochino carte, si spostino verso est o verso ovest. Di conseguenza, dovrà mettere a punto i meccanismi del gioco in maniera che supportino quelle motivazioni. Fatto questo, e aggiunta una maggiore comunicazione su quale sia il “punto di partenza”, il “fine” del gioco potrebbe anche rimanere implicito (una proprietà emergente).

Quel che si potrebbe spostare

Le istruzioni scritte sul tabellone, in realtà, non sono molto comode. Potrebbero essere ripetute nei quattro angoli del tabellone, o stampate invece su una “carta istruzioni” da dare a ogni giocatore. Potrebbero essere ulteriormente abbreviate, forse suddivise. Se, per esempio, si adottassero delle “carte personaggi”, le istruzioni di setup (punti da 1 a 5) potrebbero essere scritte sul retro di queste carte, mentre le istruzioni 6 e 7 sul tabellone o meglio ancora su un “segnaturno” che passi di mano in mano per indicare a chi tocca muovere.
Alcune istruzioni specifiche potrebbero essere tolte dalle regole generali (rendendole più sintetiche) e ripetute invece sulle carte: alcune su ogni carta (“descrivi il paesaggio” su tutte le carte luogo, “puoi scartare per interrompere chi sta raccontando e sostituire il narratore per un minuto ” su tutte le carte avvenimento…) e altre solo sulle carte che le necessitano (“i limiti imposti dalla forma del tabellone hanno sempre la priorità” solo sulle carte che dettano la direzione del movimento…) .
Se mi soffermo su questi dettagli è perché la forma in cui si presenta, con i pezzi “parlanti”, è proprio ciò in cui questo prototipo mi sembra più riuscito, e quindi vorrei vederlo ulteriormente perfezionato in questo senso.

In sintesi

Vedo molti spunti interessanti su come superare la forma del libro adottando il linguaggio visivo dei più semplici giochi da tavola, e intravedo o credo di intravedere una finalità “emotiva” nel gioco che trovo affascinante. Il prototipo è ancora troppo lacunoso per ipotizzare un playtest esterno, ma con poche integrazioni verbali permetterebbe di collaudare il gioco in presenza o con la partecipazione dell’autore.
Purtroppo, prevedo che al collaudo il gioco risulterà insoddisfacente, per difetti delle meccaniche che porteranno i giocatori a non avere motivo di scegliere una mossa o un altra (con particolare riferimento alla mossa di “interrompere”). Spero quindi che Davide continui a sviluppare il gioco concentrandosi innanzitutto su questo punto, e una volta escogitate delle meccaniche pienamente soddisfacenti si dedichi a perfezionare la già promettente presentazione.

Friday, May 30, 2014

[Commenti Game Chef] L:G:F di Ezio Melega

Il primo gioco che mi accingo a recensire per la fase di valutazione del Game Chef 2014 italiano è L:G:F di Ezio Melega.
“Full disclosure”: Ezio è un mio caro amico da anni e, per diverso tempo, compagno di gioco. Tuttavia, non ho in alcun modo avuto parte nella creazione di L:G:F e sono fermamente convinto di poterne dare una valutazione spassionata.
Nota: se non avete ancora letto il gioco, o se avete letto solo i primi due file e vorreste giocare nel ruolo di Mutato, vi sconsiglio la lettura della recensione. Se volete leggerla comunque, prestate attenzione alle segnalazioni di “spoiler”.

La presentazione

Come altri partecipanti a questa edizione del contest, anche L:G:F si presenta nella forma di alcuni libretti differenziati da distribuire ai giocatori che occupano diversi ruoli: un formato, reso popolare dai playbook di Apocalypse World, che reca diversi vantaggi di immediatezza e praticità rispetto a quello tradizionale del “manuale”. Nello specifico, qui abbiamo un’introduzione comune a tutti i giocatori, un libretto di istruzioni per i giocatori Mutati (che giocano i personaggi protagonisti) e uno per i Primarchi (i giocatori che fungono da opposizione ai Mutati, introducendo nel gioco le avversità), oltre a una postfazione in cui, fra l’altro, l’autore illustra il proprio uso degli “ingredienti” del concorso. Il tema dell’anno, “il libro non esiste”, non è stato affrontato tanto nella forma dell’elaborato, quanto nel suo contenuto.
Alcune ovvie fonti d’ispirazione per il design sono Dog Eat Dog di Liam Liwanag Burke (eccellente gioco sulle meccaniche dell’oppressione, da cui L:G:F riprende in parte anche le meccaniche di segnalini) e The Drifter’s Escape di Ben Lehman (altro caso in cui sono un gruppo di giocatori e non un singolo giocatore a incarnare collegialmente la società come forza oppressiva). L’ambientazione rimanda chiaramente all’abbondante letteratura e cinematografia fantascientifica sulla distopia, ma la maniera in cui è trattata la mutazione genetica (fonte dei superpoteri) inevitabilmente richiama gli X-men dei fumetti Marvel.
Una particolarità del gioco è di contenere alcune informazioni e regole segrete: il fascicolo destinato ai Primarchi non deve essere letto da chi vuol giocare i Mutati, e chi lo avesse già letto non potrebbe più assumere quest’ultimo ruolo. È una scelta di design rischiosa, ma tutto sommato coraggiosa, considerando che sfida quelle che sono oggi le opinioni più diffuse nel nostro ambiente (ovvero che l’uso dei segreti fra giocatori sia design pigro, socialmente problematico, ecc.).
L’idea, qui, mi pare essere che ciascuno provi per la prima volta il gioco nei panni di Mutato e in seguito, scoperti i segreti, possa propagarlo giocando il ruolo di Primarca. L’autore, quindi, ha fatto bene a rendere plurale (o, meglio, collegiale) il ruolo dei Primarchi, e anche a rinchiudere solo il minimo indispensabile di informazioni nel libro “segreto”: tutte le necessarie informazioni logistiche, invece, sono nell’introduzione e nel libro del Mutato, rendendo teoricamente possibile portare i materiali di gioco con sé e proporre il gioco a un gruppo di persone *senza* aver letto il libro del Primarca, e la lettura integrale non richiederà comunque che pochi minuti. Consiglierei, anzi, di rendere più flessibile la proporzione tra giocatori Mutati e Primarchi (al momento fissata in #M=#P o #M=#P+1), in modo da coprire una più ampia casistica di possibili contesti di gioco.
Un’altra conseguenza di questa scelta è che, tendenzialmente, ogni potenziale giocatore giocherà, nella vita, una sola partita nel ruolo di Mutato: dal punto di vista degli obiettivi di design, ciò significa doversi concentrare sul dare un’esperienza completa e soddisfacente al primo (o unico) incontro giocatore-gioco, cosa che richiede di combinare la sintesi con un’estrema chiarezza di comunicazione, e di semplificare meccanismi e contenuti del gioco proprio in funzione di tale massima efficienza comunicativa. Pochi designer sono riusciti in questo, mentre generalmente ci si accontenta di pensare che, poiché ciascun gioco di ruolo è unico, ciascuno presenta una curva di apprendimento separata, e pazienza allora se la prima partita o le prime partite per ogni particolare individuo o gruppo sono tentativi e sperimentazioni non pienamente soddisfacenti!
Poi rimane, naturalmente, il classico problema “sociale” di un sistema fondato sui segreti: discuterne in pubblico. Avrei voluto mantenere questa recensione il più possibile “spoiler-free”, ma sarebbe stato impossibile, perciò mi sono accontentato di segnalare le sezioni che contengono i maggiori spoiler.

I meccanismi

Scene a rotazione per ciascuno dei protagonisti, in base al posto a sedere dei giocatori: un solido classico. Buona idea quella di alternarvi brevi scene, diciamo così, d’intermezzo, vignette in cui i protagonisti non appaiono ma che possono essere usate per mostrare le conseguenze delle loro azioni sul mondo esterno: ciò accade nei turni dei giocatori Primarchi, che appositamente infatti si siedono alternati ai Mutati.
Quest’ultimo è solo uno dei modi in cui Ezio, in questo design, si dimostra estremamente consapevole della gestione degli spazi fisici anche in un gioco di ruolo “tabletop” (cioè, essenzialmente, in una conversazione verbale). Un altro lo si ritrova nei rituali comportamentali suggeriti ai Primarchi: l’uscire dalla stanza per consultarsi, l’importante segnale non verbale di toccare col dito il libro sacro per segnalare la violazione di una “regola” sociale e quindi il conflitto.
I “conflitti” sono risolti senza alcun ricorso alla casualità, ma semplicemente come caso particolare delle regole generali su chi può dire cosa. Soluzione che, almeno sulla carta, mi appare estremamente elegante. Resta comunque la necessità di identificare i “conflitti” come tali nella fiction, sia perché le regole generali hanno qui bisogno di essere applicate con particolare rigore, sia per come è espressamente regolamentata la possibilità di “fare marcia indietro” ritrattando le proprie affermazioni, e anche perché quest’ultimo momento è uno dei punti di contatto (insieme alla riflessione soggettiva di fine scena) in cui il contenuto narrato si ripercuote sul meccanismo dei gettoni.
I gettoni sono il più appariscente e centrale meccanismo estrinseco del gioco. Il loro movimento è influenzato dalla fiction a intervalli regolari (conflitti e conclusioni di scena) e si ripercuote su di essa con aderenza incessante, poiché delimita la gamma di contenuti che ai Primarchi è consentito narrare. La predilezione per una direzione di movimento tra le due possibili (il Mutato può sia perdere, sia acquistare segnalini a fine scena, alla velocità di uno per scena, ma attraverso il conflitto può solo perderne, e in qualsiasi numero) rispecchia nella meccanica di gioco la pressione della sovrastruttura sociale, rendendo un tipo di finale più probabile (e quindi ordinario) e l’altro più straordinario: e quindi potenzialmente più attraente per l’ego dei giocatori, compensando in qualche modo l’illimitato potere di ricatto che i Primarchi hanno nei confronti dei Mutati reticenti all’assimilazione. Questa asimmetria non sembra però sufficiente a introdurre una fonte certa di entropia nel ciclo: nonostante tutto, lo spostamento di gettoni potrebbe, almeno in teoria, proseguire all’infinito nell’alternanza di togli e metti. Per prevenire ciò, viene introdotto un numero fisso di “giri” di scene, dopo il quale ogni valore intermedio viene portato a un estremo e si va, in ogni caso, ai finali: è una soluzione forse inelegante, ma accettabile. Suggerisco che il numero massimo di giri potrebbe diventare una variabile, da stabilire all’inizio del gioco in base al tempo reale a disposizione. Sono sicuramente possibili anche soluzioni più complesse, probabilmente agendo sulla struttura della Guida: per esempio modificando nel corso del gioco i punteggi corrispondenti ai diversi contenuti (rendendoli cioè dei contatori) in modo da eliminare gradualmente dei livelli, soprattutto centrali, finché non rimangono solo i due estremi.
Un appello: il nome di Accettazione per i gettoni è assolutamente fuorviante. A un certo punto ho compreso che ciò si riferisce alla “accettazione della propria vera natura” da parte dei Mutati, ma lo stesso vocabolo potrebbe anche indicare l’accettazione degli individui mutati da parte della società. Alla prima lettura della Guida, infatti, interpretando la parola “accettazione” nella seconda accezione avevo creduto che il compito dei giocatori Primarchi fosse di spingere i Mutati alla ribellione esasperandoli e frustrandoli quanto più cercano d’integrarsi, che invece è l’esatto contrario di quanto la Guida indica di fare! Propongo di cambiare il termine in qualcosa di meno facilmente equivocabile.
Un dettaglio relativamente minore: far mettere per iscritto ai Mutati quelle che pensano essere le regole della società, come elemento di riflessione dopo le scene, mi pare piuttosto debole in questo gioco. A differenza di Dog Eat Dog, infatti, dove le regole create in questo modo diventano a tutti gli effetti le regole in vigore, qui rimangono per necessità delle ipotesi. Il senso di questo “rituale” credo sia il sottolineare ogni volta che esistono delle regole inconoscibili, e che è stata l’infrazione di quelle regole a causare guai al personaggio… Ma penso sarebbe più efficace, e più in linea col ruolo dei Mutati, se questo piccolo rito rimanesse del tutto orale. L’atto di scrivere rischia di evocare una legittimità a cui le ipotesi formulate in questa fase non possono ambire.

Il contenuto

Questa è la parte della recensione in cui non riuscirò a evitare i grossi spoiler! Quanto segue, inoltre, sconfina quasi nelle divagazioni filosofiche spicciole, quindi chi è curioso di giocare a L:G:F come “Mutato” salti pure alla sezione successiva (“Uscire dai confini del libro”) senza particolare indugio.
“Oppression superpowers”: queste parole mi sono spesso lampeggiate nella mente durante la lettura, ma con un punto interrogativo alla fine. “Oppression superpowers?” Ovvero, il gioco scade in questo sciagurato cliché o lo evita con un saltello? L’ambientazione di L:G:F ha qualcosa di involontariamente sconsiderato, o piuttosto il problema è stato considerato attentamente e, nell’opinione dell’autore, risolto?
Ci sono più letture possibili della metafora… Una sarebbe quella sull’adolescenza, quindi sull’accettazione di se stessi nella propria trasformazione fisica e mentale, processo che comunemente racconta se stesso come un conflitto con “l’autorità”, entità indefinita e onnipresente. Ci sono più letture possibili, sì, ma ciò che vedo più immediatamente problematico, nella premessa di questo gioco così come in ogni storia di “mutanti” oppressi, è il ruolo della genetica.
Sappiamo che nel mondo reale ogni forma di discriminazione è, per definizione, un dato culturale ed è, sempre per definizione, infondata: anche quando (come accade nei razzismi, ma non solo) si rifà ad una presunta base genetica. Razionalmente noi sappiamo che la specie umana è una ed una soltanto, che tutte le differenze genetiche fra individui sono appunto differenze individuali e che è mera pseudoscienza il suddividere la nostra specie in due o più gruppi giustificandolo con “i geni”. Scenari come quello delineato in L:G:F sembrano corrispondere alla lettera alle fantasie dei razzisti, restando perciò portatori di un messaggio essenzialmente fuorviante anche quando l’autore si schiera senza indugio dalla parte dei “diversi” di turno: perché essenzialmente fuorviante è immaginare una “diversità” giustificata da ipotetici fatti oggettivi (la mutazione genetica “Falce”).
*[ATTENZIONE: GROSSI SPOILER]* La domanda che mi pongo, senza peraltro sapermi rispondere, allora diventa: nel campo della rappresentazione metaforica di fenomeni socioculturali reali, trasfigurati nel fantastico, quanto l’intento esplicito di portare l’attenzione su un errore di rappresentazione giustifica l’impiego strumentale di una rappresentazione errata, e quanto invece la proliferazione di rappresentazioni errate rimane dannosa indipendentemente dal fine che si prefigge? Nello specifico del game-design, la domanda a cui non so rispondere diventa: la “morale” a fine gioco confinata in un “falso fondo” è una forma di comunicazione efficace, in cui l’effetto sorpresa serve a meglio sottolineare il concetto? O è una forma di comunicazione carente, perché dobbiamo preventivare una maggiore esposizione alla “copertina” che non al “vero” contenuto?
In altre parole, mi domando se la questione genetica (come potenziale metafora della persecuzione razzista) in L:G:F sia sufficientemente problematizzata, e la mia impossibilità a trovare una risposta dipende dalle caratteristiche della forma. Potrei dare un giudizio positivo (non *nettamente* positivo, ma positivo) sul testo, quando letto integralmente e quindi da un aspirante giocatore Primarca, ma ho difficoltà a fare pronostici sugli esiti comunicativi nel gioco giocato. Tendenzialmente, il gioco di ruolo come mezzo di espressione politica (del game designer) ha scarso impatto: verrà giocato quasi esclusivamente da chi già condivide più o meno le posizioni dell’autore, e vissuto come una riconferma e celebrazione di quelle idee. Diventa realmente significativo quando si riesce a controllare il pubblico a cui è destinato, oppure quando il fulcro si sposta dall’affermazione di una posizione alla disamina di dinamiche reali (Dog Eat Dog, The Drifter’s Escape, GR di Tobias Wrigstad…) nelle quali il giocatore si “immerge” in maniera sicura e ha così l’opportunità di comprendere in maniera intuitiva collegamenti e meccanismi che non sono evidenti dall’esterno. Se quest’ultima fosse l’aspirazione di L:G:F, la maniera in cui è posta inizialmente la questione genetica potrebbe rivelarsi un limite insormontabile. Dico “potrebbe” perché non ho abbastanza esperienza con le rivelazioni a sorpresa nel finale in un contesto politico-pedagogico per fare pronostici, e non conosco neppure molta letteratura a riguardo (un raffronto possibile è col live System Danmarc, dove però “la rivelazione” avvenne nel debriefing). Anche le peculiarità di un’ambientazione fantascientifica, altamente simbolica, rischiano di diventare una distrazione se questo è l’intento.
*[ATTENZIONE: GROSSI SPOILER]* Un dettaglio che mi ha particolarmente colpito, a cui continuo a ripensare, è la prima pagina (la copertina o facciata) del libretto del Primarca, che presenta un punto di vista del tutto ragionevole ed equilibrato: delle ottime e logiche ragioni per preservare una società in cui ai possessori/utenti di superpoteri non sono accordati maggiori diritti, in cui il potere dato dalla Falce è regolamentato come sarebbe regolamentata un’arma da guerra in tempo di pace. Sebbene il destino di questa facciata sia di essere contraddetta alla pagina successiva, continuo a ripensarci perché se fosse questa la verità sui Primarchi essa porrebbe le basi per il tipo di gioco e di storia che io amo di più: quello in cui nessuno ha completamente torto o completamente ragione, perché tutti sono semplicemente umani… Se solo la fonte dei superpoteri non fosse genetica, con tutti i problemi che ciò implica! Forse, se qualcosa di questa facciata fosse vero, se le motivazioni dei Primarchi fossero più sfumate, ciò porterebbe a maggiori possibilità di gioco metaforico sull’esperienza dell’adolescenza, sull’anarchismo politico, sul confine tra ribellione e terrorismo, e altre domande di cui non abbiamo già in tasca la risposta giusta? Allo stato attuale la rivelazione finale, mentre corregge il torto che la premessa iniziale aveva arrecato alla nostra realtà, rischia anche di vanificare ogni riflessione profonda fino a quel punto scaturita, nel momento in cui l’edificio sociale del mondo immaginario crolla come un castello di carte.
*[FINE DELLA PARTE PIÙ FITTA DI SPOILER]*

Uscire dai confini del libro

Premesso che quello che ho di fronte è un gioco evidentemente già giocabile, una bozza di cui mi sentirei in grado di iniziare un playtest anche ora (ma ciò è generalmente vero dei concorrenti di questo Game Chef Pummarola), per un caso fortuito secondo me è proprio il tema “il libro non esiste” (nell’accezione di ricerca di metodi di comunicazione alternativi che molti gli hanno dato) a indicare la più logica direzione di sviluppo per L:G:F.
Considerando infatti la presenza di informazioni segrete, di gesti e comportamenti rituali, e il probabile interesse a selezionare il pubblico a cui rivolgersi (per controllare potenziali derive del messaggio), io suggerisco a Ezio di pensare a L:G:F non tanto come a un “prodotto” (un libro, cartaceo o digitale, un oggetto-testo da scaricare dalla rete) quanto come a un “evento”.
Pensare il gioco di ruolo come un evento significa partire dalla situazione logistica e sociale, dal ritrovo di persone, e considerare tutto il materiale testuale e di altra natura come mera componentistica. Significa partire dalla presenza fisica dell’organizzatore-autore come punto d’inizio, senza escludere che poi da lì una palla di neve prenda a rotolare. Significa sgombrare la mente dalla necessità di descrivere/promettere un gioco attraverso un testo, e concentrarsi solo sul dare un’esperienza di gioco a queste persone in questo momento. Richiede il coraggio, insomma, di abbracciare la realtà dei fatti così com’è, sbarazzandosi della bugia di un libro che, tanto, non esiste.

Thursday, June 13, 2013

Recensione Game Chef 2013: “Legione Straniera”, di Iacopo Frigerio

[Con colpevole ritardo, ecco finalmente l'ultima delle mie recensioni "ufficiali" per il Game Chef!]

Frigerio è autore ed editore di giochi di ruolo fra i più prolifici in Italia negli ultimi anni, sempre mantenendo un profilo che definirei “d’essai”. Legione Straniera (titolo provvisorio, presumo) è la sua proposta per questo Game Chef, e si presenta alla lettura come un elaborato scarno e di certo scritto molto rapidamente, dalla forma quasi di appunti per una futura stesura, e tuttavia (anzi, forse proprio per questo) intriso di una elevata professionalità.
Professionalità perché l’autore, nel suo approccio alla competizione, non ha tentato (per esempio attraverso la grafica o altri aspetti della presentazione) di costruire l’illusione di un prodotto finito, ma si è concentrato esclusivamente sul design delle meccaniche di gioco realizzando una prima bozza strettamente funzionale al playtest. Non dico che questo sia l’unico approccio “corretto” al Game Chef, né necessariamente il migliore (del resto, accade di frequente che alcuni componenti della presentazione agiscano da fattori determinanti del gameplay, comportandone il coinvolgimento imprescindibile in ogni stadio del processo di design), ma mi appare come un approccio estremamente onesto, e anche responsabile: nel senso che, quando un designer ha fatto un così visibile investimento di lavoro nel primo concept di un gioco salvo presentarlo come bozza così chiaramente provvisoria, ciò sembra implicare che si stia fin dall’inizio assumendo la responsabilità di continuarne lo sviluppo, perché riconosce che questo è solo il primo passo di un processo lungo e articolato.

L’ambientazione

Trovo la scelta di un’ambientazione storica un’ottima mossa per una competizione a tempo come il Game Chef. Intanto, come prova di coinvolgimento dell’autore nella tematica: poiché l’uso di un’ambientazione storica presuppone un lavoro di ricerca, e quindi nel contesto di uno stretto limite di tempo dimostra un interesse preesistente per un argomento che il designer in qualche modo ha “sentito risuonare” con il tema e gli ingredienti della competizione. Troppo spesso, invece, noi concorrenti (e io per primo ne ho una lunga storia) siamo colpevoli di arrampicarci sugli specchi costruendo ex novo attorno agli ingredienti ambientazioni fantascientifiche o fantastiche che, inevitabilmente, risultano poco approfondite, deboli o farraginose.
Poi, perché è proprio un’ottima mossa come strategia di presentazione: invece di dedicare pagine alla descrizione di un mondo, consumando tempo di lavoro e parole (entrambe risorse limitate), è sufficiente che l’autore indichi in breve quelli che considera gli aspetti salienti dell’argomento, lasciando ai lettori il compito di fare ricerche e approfondire, se lo vogliono. Letture specifiche sulla Legione Straniera francese ne esistono sicuramente a iosa, e oggi viviamo in un mondo in cui l’accesso all’informazione storica è relativamente facile. Beninteso, in future versioni del testo mi aspetto comunque (per cominciare) una bibliografia ragionata, strumento con cui il designer potrà orientare i giocatori verso un taglio interpretativo conforme a quello che lui stesso ha seguito nel suo design.
Mi colpisce favorevolmente anche la scelta, abbastanza originale seppur non senza precedenti, di prendere come ambientazione non un periodo storico e un luogo, bensì l’intera storia di un’istituzione. Tuttavia, penso anche che non toglierebbe nulla al gioco se in future edizioni del testo l’autore decidesse di concentrarsi, per esempio, solo su una specifica guerra: sarebbe una scelta decisamente più pratica se si volesse presentare, insieme alle regole, un compendio di informazioni storiche e di costume tale da rendere solo opzionali ulteriori letture.

Le meccaniche

Nessuna delle meccaniche impiegate in Legione straniera è di per sé particolarmente originale: si tratta piuttosto di un buon mix di elementi già visti in molteplici altri giochi, di ruolo e non. Un design “frankenstein”, quindi, e complessivamente ben fatto in questo, che è prova di buon “mestiere” ma soprattutto della vasta erudizione ludica dell’autore: sarà interessante leggere, in una futura stesura, una ludografia delle sue fonti d’ispirazione dichiarate. Tiene insieme il tutto la strategia di design più classica e meglio collaudata: affidare l’inquadramento di tutte le scene, l’introduzione di avversità sia immaginate sia meccaniche, la gestione delle poche informazioni segrete e, oserei dire, “il ritmo” del gioco a un singolo giocatore, qui chiamato “Guerra”. Ci vuole sempre un pizzico di coraggio e una certa sicurezza di sé per far questo in una competizione del genere, in cui si viene giudicati anche per l’originalità, invece di tentare a ogni costo impianti di gioco più “alla moda” o anche deliberatamente “strani” che poi, tante volte, si rivelano eccessivamente complicati o comunque non funzionanti.
La meccanica di risoluzione dei conflitti (terminologia non impiegata nel testo, ma che non esito a utilizzare per analogia) è basata sui dadi e sull’azzardo e prevede una “posta” sempre fissa e non negoziabile: il legionario viene ferito oppure no? La componente di azzardo è ciò che lega questi tiri di dado alla fine del gioco, visto che al giocatore si richiede di “risparmiare” dadi nel corso della partita per poter poi ottenere un finale positivo per il proprio personaggio (l’obiettivo ideale è risparmiare 11 dadi), ma cercando comunque di superare la soglia di difficoltà di volta in volta crescente per non rimanere senza più chance (ogni personaggio può infatti sopportare solo due ferite, la terza è mortale; e la morte è, nell’ottica di questo gioco, un finale negativo). La fortuna ha ruolo importante, perché solo i dadi che risultano in un 5 o un 6 possono essere “messi da parte”. Un ulteriore parametro distinto, la Brutalità, incide su questo equilibrio, rendendo più probabile evitare le ferite ma anche rischiando di condannare il personaggio a un finale comunque negativo; a differenza di quanto discusso finora, l’accumularsi di Brutalità (e della sua controparte, Pietà) dipende esclusivamente dal comportamento del personaggio “nella fiction” e dal giudizio che ne danno gli altri giocatori, e quindi introduce nel sistema di risoluzione e giudizio finale una forte componente fiction=>meccaniche (cosa in questo contesto indubbiamente positiva).
Intravedo però alcune possibili pecche in questa struttura. Una è la mancanza di chiarezza rispetto ad altri possibili conseguenze a breve termine del conflitto, che non siano la ferita: il testo dice che anche in caso di fallimento il personaggio “può comunque essere riuscito nella sua azione ”, ma chi lo decide? Si direbbe, parte il giocatore stesso (che decide come il proprio personaggio viene ferito) e parte i compagni (che narrano chi e come lo trae in salvo), mentre Guerra non sembra prendere parte nella decisione: ma ciò rimane implicito. Qui il rischio è che un protagonista possa prendere una ferita eroica “gratis” nelle ultime fasi del gioco: se arrivo al penultimo turno senza aver subito ferite, e i dadi determinano nell’immediato “solo” il mio ferimento, poiché è solo la terza ferita ad avere conseguenze sono ormai “al sicuro”. A questo punto non avrei più incentivi a far agire il mio personaggio con Brutalità, e mi limiterei a tirare i dadi sperando di ottenere quanti più 5 e 6 possibili, che ovviamente risparmierei tutti. Se invece, per esempio, Guerra avesse facoltà di determinare tutto ciò che non riguarda direttamente la ferita in caso di tiro fallito, allora la minaccia di conseguenze su PNG (che possono aver sviluppato una dimensione affettiva nel corso dei precedenti turni di gioco), sull’esito complessivo della missione bellica o altro potrebbe rendere meno automatica la scelta di mettere da parte dadi. Una soluzione alternativa allo stesso problema, s’intende, è quella di rendere il numero di turni per partita variabile invece che fisso, ma ciò implicherebbe andare a modificare una struttura macroscopica che appare già valida solo per risolvere quello che tutto sommato è un dettaglio, e quindi non credo sarebbe la miglior scelta di design.
Altra possibile pecca riguarda il sistema della Fiducia, un meccanismo ispirato a The Mountain Witch di Timothy Kleinert e derivati (Cold City di Malcolm Craig, il sottosistema della Hx in Apocalypse World di Vincent Baker). I punti Fiducia assegnati ai compagni permettono di tirare dadi aggiuntivi, il che è molto importante nell’economia del gioco, specie a fronte della soglia di difficoltà crescente. Tuttavia, il contraltare, cioè l’unica ragione per non assegnare punti Fiducia a man bassa, è relativamente debole, perché solo quelli assegnati dalla vittima designata all’Infiltrato avranno conseguenze, e anche questo non è certo. Considerato che l’attentato avviene solo alla fine del gioco, e che mettendo da parte dadi nel corso dei vari turni il bersaglio accresce oltretutto la propria probabilità di salvezza, mi pare ovvio che la strategia di gioco ottimale sia quella di abbondare con la Fiducia: più dadi da tirare equivalgono a più dadi messi da parte e una minor probabilità di morte prematura, più dadi messi da parte a un finale più felice per il mio personaggio, e giunti al momento della verità se sono proprio io la vittima designata mi resta comunque almeno un’opportunità di salvarmi la vita; se invece fossi parco con la Fiducia tirerei meno dadi e rischierei quindi un finale triste, per tacere della maggior probabilità di morire comunque anzitempo. Infine, se l’Infiltrato sono io, non ho alcuna ragione meccanica di non elargire Fiducia a tutti: solo il rischio di creare sospetti mi indurrà a limitarmi un po’, se questo avvicina il mio comportamento a quello di tutti gli altri.
Possibili variazioni al sottosistema della Fiducia? Me ne vengono in mente almeno due, posto che rimanga com’è il ruolo dell’Infiltrato (tema che affronterò oltre). Una possibilità è eliminare i dadi-Fiducia, mantenendo solo i punti Fiducia: è una variabile in meno sul numero di dadi tirati, ma i dadi “aiuto” potrebbero comunque esistere, solo in proporzione fissa; e forse se si accettasse l’aiuto di un compagno sarebbe poi obbligatorio dargli il punto di Fiducia. Alla fine del gioco, se l’Infiltrato è il personaggio a cui la vittima designata ha accordato la Fiducia più alta (anche a pari merito!) l’attentato riesce automaticamente, altrimenti fallisce. L’altra possibilità a cui pensavo è cambiare il momento in cui l’attentato avviene: ogni volta che la vittima designata accetta il suo aiuto, è per il killer un’occasione di colpire, se decide di sfruttarla. In tal caso, l’esito andrebbe comunque determinato con i dadi, che però dovrebbero indicare separatamente anche se l’Infiltrato viene scoperto dagli altri compagni o meno.
Segnalo, infine, che non sono del tutto convinto da ogni singola voce della tabella dei finali. In particolare, che significa “in totale balia di Guerra, che potrà usarlo per il suo trastullo”? È colorito, ma non esattamente molto significativo. Si vuol forse lasciar intendere che, per esortare gli altri giocatori a mettere da parte dadi, il giocatore Guerra deve minacciarli di pesanti ritorsioni psicologiche qualora non lo facciano? Sono convinto che si possano progettare incentivi migliori, o quantomeno meglio espressi.

La gestione del gioco

A me sembra, comunque, che il vero cuore procedurale del gioco non stia nelle meccaniche fin qui esplicitate, bensì in quanto descritto (troppo affrettatamente) nel paragrafo “Le Scene e il Ruolo di Guerra ” e nell’incipit del successivo: in altre parole, in come viene condotto il gioco e come la “fiction” interagisce con le meccaniche, che poi hanno un solo “punto d’innesco”: «Guerra deve porre il personaggio di fronte a una sfida, una difficoltà o una scelta difficile.» Ma questa descrizione del punto d’innesco è fin troppo vaga, a parer mio, specie per assenza di contesto ulteriore.
La principale domanda a cui il testo non dà risposta è come il potere di ciascuno dei giocatori-protagonisti di “offrirsi volontari” per affrontare la sfida (di per sé un’idea interessante per come approssima un meccanismo narrativo e psicologico centrale a un racconto di cameratismo militare) interagisca, nella pratica, con l’inquadramento delle scene. Guerra è forse tenuto a porre esclusivamente sfide o problemi che riguardano tutto il “gruppo”, e che ciascuno dei personaggi che ancora non hanno agito nel Turno in corso possa offrirsi di affrontare? Se è così, si pongono limiti precisi alla tipologia di scene che Guerra può inquadrare, e se mi trovassi in questo ruolo sentirei decisamente il bisogno di indicazioni più dettagliate su come svolgerlo. O forse, questo “offrirsi” può o deve avvenire “out of character”, a priori, e poi Guerra ne tiene conto per scegliere quali scene inquadrare?
Altre domande che, come Guerra, sicuramente mi porrei riguardano il contesto presunto delle scene (solo momenti di operazioni militari, o anche “dietro le quinte” della guerra in corso?), le possibilità di suddivisione del turno in più scene (“strettamente connesse” può significare tutto o niente), la tipologia di problemi o ostacoli da contrapporre ai legionari, ecc. E come si gestisce un disaccordo tra due giocatori-legionari, nel momento in cui vogliano entrambi offrirsi? Non dubito che per alcune di queste domande la risposta giusta sia “fa’ come ti senti”, e questa è una risposta del tutto valida; tuttavia, sono certo che per almeno alcuni di questi fattori l’autore avesse in mente delle risposte molto precise, che però non ha inserito nel testo. Il problema, in altri termini, è che per un gioco così largamente affidato alla direzione di un singolo giocatore occorrono indicazioni su come svolgere questo ruolo, in assenza delle quali il documento è utile solo all’autore stesso per condurre un playtest “interno”, ma non comunica la sua visione del gioco a un lettore esterno come me.

Il ruolo dell’Infiltrato

Mi sembra che “l’anello debole” nell’attuale impianto del gioco, per quanto riguarda la complessità del contenuto e lo sviluppo psicologico dei personaggi, stia nel ruolo dell’Infiltrato. Potenzialmente questo sarebbe il personaggio per certi versi più interessante: che cosa mai può passare per la mente di un individuo che dedica sei anni a guadagnarsi la fiducia di un altro, esclusivamente con il proposito di ucciderlo? Una storia potenzialmente intrigantissima che il testo, invece, liquida in una riga e mezzo: «Uno di loro è un infiltrato, mandato per uccidere proprio uno degli altri personaggi, reo di aver abbandonato la causa .» Quale causa? Una qualunque, magari?
La verità è che, per come è strutturato il gioco, quello dell’Infiltrato è un “ruolo tecnico”, funzionale a dare un senso (pur con i limiti di cui già ho parlato) alla meccanica della Fiducia che, invece, negli altri giochi da cui è tratta si regge su circostanze per cui tutti potrebbero tradire tutti in ogni momento. L’ispirazione sorge dagli ingredienti del concorso (la “mela marcia”), ma non è ben sfruttata. Per come stanno le cose ora, l’Infiltrato è privo di identità: “è probabile” che le sue Eredità false e di copertura, il suo Segreto (la parte più intima di ogni altro personaggio) viene sostituito dalla scelta del bersaglio… bersaglio che, fra l’altro, è individuato praticamente a caso. Qualsiasi relazione indiretta sussista tra assassino e vittima designata dovrà essere improvvisata a posteriori, e oltretutto sempre nell’ignoranza del Segreto. L’evento insieme meno verosimile e più caratterizzante dell’intera vicenda (ho già sottolineato che si tratta di un inganno lungo sei anni?) rimane completamente privo di movente.
Sarebbe molto più interessante, credo, se la scelta del bersaglio e il movente dell’Infiltrato si legassero fin dall’inizio alla rete di Segreti presente. Per esempio, posso ipotizzare una soluzione in cui non si sorteggia l’Infiltrato con le carte, ma piuttosto dopo aver ricevuto i Segreti di tutti Guerra si prende una breve pausa di riflessione; se alcuni dei Segreti hanno un legame tematico con altri, Guerra può a questo punto passare bigliettini ad alcuni giocatori… Per esempio, se uno dei protagonisti avesse il Segreto “ex-membro del partito nazista” e un altro il Segreto “fuggito da un campo di concentramento”, Guerra potrebbe passare a quest’ultimo il messaggio: «Fra di voi c’è un nazista. Vuoi vendicarti?»; solo in caso di risposta affermativa, Guerra comunicherebbe al giocatore in questione l’identità del suo bersaglio (s’intende che Guerra dovrebbe avere uno scambio di bigliettini bianchi con tutti i giocatori ai quali non ha niente da comunicare). Con questo sistema potrebbero esserci contemporaneamente più “infiltrati” con bersagli diversi, o anche nessuno: non importa, perché l’equilibrio del gioco si regge sul sospetto. Potrebbe perfino esserci un infiltrato che ha per bersaglio un altro infiltrato che ha per bersaglio un terzo protagonista. Ovviamente questa è solo una proposta di variante costruita frettolosamente, ma dovrebbe rendere l’idea di ciò che intendo quando parlo di un “movente” per l’attentato finale.

In conclusione

Legione straniera è una raccolta di appunti ancora incompleti per un gioco che si prospetta interessante e avvincente, ma in cui sospetto alcune debolezze che dovranno essere sanate nel corso delle prossime fasi dello sviluppo. Consiglio a Iacopo, se non lo sta già facendo, di mettersi al tavolo e giocare, sottoponendo alla prova dei fatti questi miei dubbi o eventuali altri. Quando avrà verificato ed eventualmente corretto le meccaniche, potrà dedicarsi a redigere una bozza più estesa per il playtest esterno, in cui darà indicazioni più precise e dettagliate su come svolgere il compito di Guerra. Il tutto nell’ottica di arrivare, prima o poi, a un prodotto editoriale dalla presentazione meno succinta che dia spazio all’ambientazione storica, con un taglio personale ma senza la pretesa di esaurire l’argomento. Tutte queste cose suppongo però che l’autore, cui certo non fa difetto l’esperienza, le sappia già.

Monday, June 10, 2013

Recensione Game Chef 2013: “Io, me Stesso, me”, di Lavinia Fantini

Io, me stesso, me è un “gioco di ruolo in solitario”. Non però nell’accezione in cui lo erano un tempo le “avventure in solitario” per Dungeons & Dragons, Tunnels & Trolls o Uno sguardo nel buio, affini al libro-gioco e al videogioco single-player. Il design proposto da Lavinia Fantini si inquadra piuttosto in una nuova tradizione di riscoperta del gioco solitario promossa dalla RPG Solitaire Challenge (2011) patrocinata da Emily Care Boss: si tratta sostanzialmente di fornire linee guida e strumenti, talvolta una scaletta che il giocatore possa seguire nel fantasticare per conto proprio, costruendo storie nella propria immaginazione.
Come recensore mi sono trovato in difficoltà, perché se da un lato ho letto le istruzioni di alcuni giochi appartenenti a questo filone (Relic di Ron Edwards, Map of the House di Jackson Tegu, Teen Witch di Joe Mcdaldno) tuttavia non li ho mai provati in prima persona. La mia esperienza credo più simile è stata quella con How to Host a Dungeon di Tony Dowler, un gioco di costruzione procedurale di una mappa che, in aggiunta, produce anche una sorta di narrazione (se tale vogliamo definire una semplice cronologia di avvenimenti): ciò mi dà perlomeno un’idea del ruolo che un gioco “in solitario” potrebbe occupare nella mia vita, ma con How to Host a Dungeon stiamo pur sempre parlando di un’attività basata sulla manipolazione creativa di oggetti concreti, paragonabile al giocare con i Lego.
Siccome, insomma, non mi sentivo sufficientemente esperto in questa tipologia di gioco da poter formulare un giudizio alla lettura, ho ritenuto mio dovere tentare un playtest. Non è stata una decisione difficile a prendersi: dei quattro giochi che mi sono stati sottoposti per recensirli, questo è proprio quello che nel complesso ho trovato più attraente, e che più ero curioso di provare. Purtroppo la cosa si è svolta in condizioni non ottimali: vi ho potuto dedicare non più di un’ora di tempo, durante la quale oltretutto si sono verificate alcune interruzioni, e sentendomi sotto pressione per una serie di piccole scadenze (fra cui quella di queste recensioni, con cui sono comunque in ritardo) non sono riuscito a raggiungere quello stato di relax, di tranquillità contemplativa che mi sono convinto questo gioco richieda. L’impressione a cui sono pervenuto, comunque, è che purtroppo Io, me stesso, me, nel suo stato attuale, “non funzioni” per me: con ciò non sono tuttavia in grado di concludere che non funzionerebbe per altri. Anzi, a essere sincero non posso neppure escludere del tutto che avrebbe funzionato anche per me in differenti condizioni, ma mi permetto di essere un po’ scettico a riguardo: diciamo che il verificarsi di tali condizioni è già abbastanza improbabile di per sé, ma soprattutto che la ragione per cui mi servirebbe così tanta tranquillità per riuscire forse a giocare è che l’attività base di questo gioco mi risulta molto impegnativa, perfino faticosa.
Comunque, questa è a tutti gli effetti una recensione di playtest, per quanto parziale: nel seguito di questo articolo racconterò dunque la mia breve esperienza con gli strumenti forniti da questo design, i punti di maggior attrazione che esercitavano su di me e le difficoltà che ho trovato nel tentativo di utilizzarli.

La prima impressione

La premessa di un defunto che si guarda alle spalle, verso una vita vissuta che non ricorda distintamente, mi sembra più importante per il ruolo che ha avuto nel processo creativo dell’autrice, dandole lo spunto iniziale, che non come influenza sullo svolgimento effettivo del gioco: qui a farla da protagonista è chiaramente la prospettiva psicologica, la riflessione sul comportamento umano in vita, fuori da ogni cornice teleologica. Il vero fulcro del gioco, da cui il titolo, è la scomposizione del comportamento nei tre aspetti della psiche qui chiamati “guide” (Es, Ego e Super-ego). Mi sembra onesto dire che tutto si costruisce attorno a questa idea di ipotizzare le conseguenze su uno stesso scenario quando lo si affronta con l’una o con l’altra faccia della stessa personalità. Ammetto che per me non è tanto questa scomposizione, in sé, ad essere attraente, quanto l’idea che essa possa riflettersi sul tono complessivo di una scena: il mio dettaglio preferito nel testo sono le indicazioni di “regia” date per ciascuna delle tre guide (colori, luci, suoni, odori), e forse è stato questo in particolare a stuzzicarmi a provare.
La conclusione del gioco è comunque una scelta “morale” sul destino dopo la morte. Di primo acchito, sembra un buon finale perché lasciato aperto all’interpretazione: si invita il giocatore a scegliere qual è la sorte “moralmente giusta” per il protagonista, lasciandogli però pieno arbitrio nel definire la propria morale. Forse alla lettura non mi ha fatto l’effetto di uno di quegli aspetti intriganti per cui provare il gioco, ma almeno mi è sembrato qualcosa di adeguato e non ingombrante: un finale “scusa”, magari, ma più che valido in questo ruolo.

Actual play, problema 1: io, me stesso e i miei ingombranti ricordi

Per cominciare, ho “creato il personaggio”, attenendomi alla scaletta e agli esempi dati. In effetti, ho provato una sensazione di troppa libertà a questo punto: da dove iniziare? Perché preferire un protagonista con certi tratti piuttosto che altri? Qual è, insomma, la ricetta segreta di un protagonista “interessante”? Ho fatto ricorso al mio default, cioè l’esperienza diretta di vita, creando un protagonista, Mario, che era praticamente una plausibile sovrapposizione di caratteristiche tra due miei amici con poco in comune fra loro, più un dettaglio che mi è passato per la mente per caso.
Poi mi sono scritto tre “frammenti”. Ho riletto più volte il paragrafo a riguardo e gli esempi, alla ricerca di consigli, di “trucchi” nascosti, ma ho trovato meno indicazioni di quanto sperassi. O, forse, mi stavo preoccupando troppo, quando invece qualsiasi cosa sarebbe andata bene? Ho tratto tre episodi tutti dalla mia esperienza diretta, ma forse questa non è stata necessariamente una buona idea, come si vedrà. Poi mi sono chiesto da quale cominciare, e (presagendo che probabilmente non sarei andato oltre il primo) ho puntato su quello che mi sembrava più ricco di potenzialità di conflitto; fra l’altro, un avvenimento abbastanza recente della mia vita: andare a trovare a casa un’amica di lunga data per parlare del nostro rapporto dopo un litigio al telefono.
Ho scelto l’Ego come prima Guida sia perché mi sembrava la scelta più adatta alla situazione, sia perché (come consiglia il testo) mi sembra rappresentare un aspetto della psiche con cui personalmente mi trovo a mio agio nella vita reale: in breve, in questo contesto viene descritto come una tendenza verso il compromesso, una pulsione di mediazione tra sé e gli altri. Determino casualmente che l’altra Guida attraverso la medesima situazione sarà poi il Super-ego.
Per questa scena creo anche due personaggi (l’amica, Marcella, e il suo fidanzato che convive con lei), appuntandomene per iscritto le caratteristiche salienti. Il testo non prescrive espressamente di scriverli, ma ritengo di avere la necessità di fissare qualcosa al di fuori della mia testa così da impedirmi di trasformare involontariamente i personaggi in corso d’opera: scrivo, insomma, per meglio riuscire a conservare la loro integrità. Compio qui quello che a breve si rivelerà un errore, ovvero partire nella definizione dei personaggi dai miei amici reali presenti in quella specifica situazione: anche se mi impongo di differenziarli esplicitamente da quelle persone almeno in qualcosa, ormai ho commesso l’errore di visualizzarli coi loro volti, e non riesco più a tornare indietro.
Quando inizio a immaginarmi la scena (se è possibile, in un esercizio mentale come questo, determinare il momento preciso in cui ho iniziato a immaginare la scena), l’ambiente è la casa della mia vera amica. E non potrebbe essere altro posto: ero partito da un mio ricordo per decidere la situazione-spunto, giusto? E il mio ricordo dell’evento reale corrispondente è inestricabilmente legato al luogo, o almeno all’impressione soggettiva del luogo; come del resto ogni altro mio ricordo. Per questo sopra ho scritto che non è stata una buona idea scegliere come “frammenti” degli episodi vissuti in prima persona: sono convinto che se fossi partito da problemi di amici o conoscenti, da situazioni che conosco solo per sentito dire, allora le cose sarebbero andate in modo diverso.
Comunque, faccio appello alle indicazioni “di regia” che il testo suggerisce per la mia Guida attuale: intervengo sulla mia immagine mentale della scena focalizzandomi sulle luci, sugli odori, sui suoni. Attraverso questo procedimento decido che è estate, fa caldo, si sentono frinire le cicale: col senno di poi, mi accorgo ora che questi sono comunque ricordi sensoriali legati a quel luogo reale, ma non a quello specifico episodio (che invece è avvenuto in un’altra stagione). Quindi sono in qualche modo riuscito a differenziare la scena immaginaria dal mio vero ricordo: sto giocando. Decido che Mario, sotto la guida del suo Io conciliatore, si presenta alla porta con del gelato. «Ah-ah!», penso, «Io non avevo del gelato con me quella volta , e ciò significa che sto riuscendo a far funzionare il gioco!», non rendendomi conto lì per lì che questo è indice di una difficoltà abbastanza grave, invece: in pratica, se ero tutto concentrato sul rendere in qualche modo la scena diversa dal mio ricordo, ciò significa che stavo comunque ancora basandomi sui miei ricordi, invece che immaginare quelli del mio protagonista.
Più o meno a questo punto, mi accorgo che non sto visualizzando Mario sulla porta con la confezione di gelato (avevo già più o meno definito l’aspetto di Mario, o meglio, avevo più o meno preso atto che lo immaginavo simile al mio amico A.): sto visualizzando me! E questa infatti è un’altra trappola da cui non sono più riuscito a sganciarmi, per quanto lo volessi.

Actual play, problema 2: io, abbandonato a me stesso

Continuo comunque a cercare d’immaginare la scena, sempre sforzandomi di renderla diversa da come la ricordo davvero. Mi interrompo per ridare un’occhiata al manuale: le scene devono sempre arrivare a un punto di crisi o di conflitto, giusto? Ah, no, non necessariamente: possono anche arrivare a una silenziosa frustrazione o qualcosa del genere. Comunque, penso, diamogli un po’ di filo da torcere, a questo vigliacco del mio Ego conciliatore! Immagino quindi che per qualche minuto la conversazione volga sul gelato, ma poi Marcella si rivolga a me/Mario a muso duro dicendo: «Credevo che fossi qui per parlare di qualcos’altro!»
Mi rendo conto, però, che a questo punto anche la mia capacità di sostenere, diciamo così, il mio “spazio immaginato individuale” sta vacillando. Dopo questa battuta, non riesco a immaginare il dialogo parola per parola (o non ne trovo la voglia), ma sono portato a riassumere, nella mia testa, la scena, a immaginarla velocizzata. Qualcosa tipo (più o meno testualmente): “allora il protagonista si mostra mortificato, Marcella abbassa leggermente i toni, cominciano a parlare dell’argomento, girandoci intorno, vanno avanti così per più di un’ora ma è chiaro che nessuno dei due riesce davvero a capire il punto di vista dell’altro. Rientra il di lei ragazzo, suggerisce che il protagonista si trattenga per cena e lui non osa rifiutare, ma seguono ore di imbarazzati silenzi e totale incomunicabilità.” Mi sembra che possa andare come conclusione della scena. Nel frattempo, sul pezzo di carta che avevo davanti a me ho annotato sparse parole come: imbarazzo, silenzio pesante, sentirmi a disagio.
A questo punto, dovrei “riprovare” la situazione sotto la guida del mio Super-ego… pardon, del Super-ego del protagonista, per vedere in che cosa sarà diversa. Ma mi trovo in difficoltà su più fronti. Innanzitutto, sono in difficoltà a modificare la “regia” (l’aspetto sensoriale) della location per adeguarlo alla giuda: ora che ho stabilito che è estate e si sentono le cicale, quanto è lecito cambiare di questo? Ora che mi trovo a raccontare la mia esperienza a mente fredda, mi vengono in mente molte soluzioni anche interessanti, ma lì per lì è chiaro che stava subentrando in me la stanchezza. Sono già alla paralisi mentale, non riesco a decidere come il Super-ego mi guiderebbe a agire: umiliando me stesso e dando ragione senza riserve alla mia amica, o mettendo lei sulla lista di quelli che hanno torto e radicandomi nella mia posizione?
In realtà, è chiaro che non c’è modo di sbloccare la questione senza conoscere il contenuto esatto del diverbio che i due personaggi hanno avuto in precedenza. E questo spiega anche la mia fatica e difficoltà a soffermarmi sui dialoghi nella prima versione della scena: io non sapevo per cosa i due avessero litigato, non l’avevo mai deciso! Il default più spontaneo sarebbe forse: per lo stesso motivo per cui io nella mia vita reale ebbi una discussione una volta con quella certa mia amica; ma questo, per fortuna, il background di Mario, completamente diverso dal mio, lo rendeva impossibile. Dico “per fortuna” perché sono abbastanza convinto che l’intendo dell’autrice di questo gioco non sia mai stato quello di farmi affrontare una improvvisata sessione di auto-terapia, e quindi se avessi continuato in quella direzione avrebbe voluto dire che stavo sbagliando qualcosa.
Una cosa di cui sono certo è che in un gioco con altri giocatori vi sarebbero stati abbastanza strumenti per far fronte a questo problema, diciamo così, “di vuoto di contenuti” da renderlo a tutti gli effetti un non-problema. Per esempio, se la medesima scena fosse stata giocata da più giocatori, chi in quel momento interpretava Marcella avrebbe potuto, sempre parlando nel personaggio, improvvisare delle informazioni sul litigio; io avrei preso spunto da quelle informazioni e automaticamente vi avrei aggiunto del mio, e così via: coinvolgere altre persone in un simile processo lo rende più facile. Oppure, qualunque giocatore avrebbe potuto interrompere e, come suggerimento fuori personaggio, dire qualcosa sul litigio; forse avremmo, nella pratica, riavvolto il tempo per chiederci che cosa fosse accaduto prima. In quest’ultimo caso, è importante anche osservare che lo spazio immaginato condiviso fra più giocatori (insomma, la conversazione) siccome siamo abituati a maneggiarlo è elastico e resistente: se la conversazione “torna indietro nel tempo” sugli antecedenti dei fatti, tuttavia non siamo confusi su cosa avviene quando, e se anche volano suggerimenti a destra e a manca, tuttavia raramente abbiamo dubbi di legittimità su cosa è da considerarsi “accaduto” rispetto a cosa era solo un’ipotesi.
Al contrario, nel gioco in solitario ogni problema torna nuovo e bisogna inventarne una soluzione. E mantenere l’integrità complessiva dello spazio immaginato è già un esercizio difficile. Il problema è di convalida, di conferma, di distinzione tra pensiero e pensiero: come tengo separata ogni altra cosa che mi attraversa la testa da ciò che sto immaginando specificamente come scena? Soprattutto i molti pensieri che hanno comunque a che vedere con l’esercizio in sé, o con la scena stessa. Le diverse versioni, o possibilità, immaginate in simultanea. Il tornare indietro con la mente, appunto, a specificare che cosa era avvenuto prima. Difficile, insomma, orientare il mio cervello a immaginare in un’ordinata sequenza cronologica; i miei pensieri sono in genere un caos che riesce ad essere ordinato solo dall’atto dell’espressione all’esterno, mediante il linguaggio parlato (o scritto). Forse il punto è che Io, me stesso, me somiglia un po’ troppo nelle sue strutture a un gioco di ruolo per più persone, con la sola differenza di essere per una?
Fatto sta che prima di completare il secondo “ciac” della scena ho abbandonato l’esercizio, alquanto affaticato.

Soluzioni?

L’unica cosa che mi viene in mente è la possibilità di guidare più fortemente il giocatore. È possibile (anche se non sono certo che questa sia la sola fonte di problemi) che ora come ora sia tutto fin troppo libero. Forse il gioco beneficerebbe di una presenza più forte, più “interventista” del game designer: del diventare un dialogo tra autore e giocatore, invece che il giocatore che tenta di dialogare con sé stesso.
Intanto, il segreto della sua giocabilità potrebbe essere in una “giusta” selezione del personaggio protagonista, dei frammenti di memoria, dei comprimari; selezione per la quale occorrono allora linee guida più stringenti. In realtà, forse a questo punto dello sviluppo l’autrice stessa non ha ancora le idee al cento per cento chiare su quale alchimia di elementi sia necessaria a far funzionare l’esperienza di gioco, il che significa che deve innanzitutto assicurarsi di averla trovata: dopodiché ci sarà ancora del lavoro di design in senso stretto da fare, vale a dire distillare questa alchimia in suggerimenti, esempi o addirittura regole che non dico che garantiscano (questo sarebbe presuntuoso e impossibile), ma che ne rendano il più possibile probabile il verificarsi.
Ho detto anche “regole” perché, personalmente, mi troverei di sicuro più a mio agio con qualche cosa tipo degli “oracoli”: degli insiemi di elementi predeterminati da cui in qualche modo attingere, combinandoli, così da utilizzare la mia esperienza individuale solo come collante, e non come punto di partenza unico. Forse mi sarebbe anche d’aiuto se un maggior numero di componenti del gioco, per esempio i personaggi, fossero sottoposti a regole che obbligano a metterli per iscritto (come avviene per i frammenti) e, in più, indicano una forma specifica in cui scriverli. In definitiva, insomma, forse quello che sto cercando, o che per gusto personale mi piacerebbe vedere aggiunto a questo gioco, sono dei fattori casuali ed esterni a me (fossero anche solo delle macchie di Rorschach) con cui confrontarmi per ottenere una qualche forma di “straniamento” o di “auto-alienazione” che mi aiuti a dare corpo e struttura autonomi alle mie fantasie.

In conclusione

Nel breve e incompleto “esperimento” che ne ho fatto, il sistema di gioco di Io, me stesso, me non ha granché funzionato per me. Mi sono fatto così l’idea che sia un’attività impegnativa, che richiede pertanto condizioni molto favorevoli per essere condotta con successo, e che forse mi chieda più di quanto non mi dia in cambio, perché in qualche modo mi sono sentito “lasciato solo” dal designer del gioco, invece di provare la sensazione di interagire indirettamente con lei attraverso le dinamiche e gli elementi da lei progettati.
Con ciò non sono tuttavia disposto a concludere in maniera definitiva che l’esperienza non avrebbe potuto funzionare per me date circostanze differenti. E, a maggior ragione, non mi sento di azzardare alcun ragionevole giudizio sulla sua fruibilità da parte di altri! È davvero ancora tutto da verificare.
Debbo quindi concludere questa recensione con più dubbi che non certezze. La sola cosa di cui sono certo è che consiglio a Lavinia di non demordere, in nessun caso, ma invece di provare e far giocare il gioco. Spero che il resoconto del mio tentativo, seppur breve e frammentario, le sia di qualche utilità: e casomai i miei dubbi dovessero risuonare con quelli espressi prima o dopo di me anche da altri, mi auguro di avere, nel mio brancolare a tentoni nel buio, indicato possibili direzioni di ricerca e sviluppo e non meri vicoli ciechi.
È un territorio quasi vergine, questo, e perciò mi sento di dire: brava, eccezionalmente brava anche solo per aver provato!