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Wednesday, February 3, 2010

Basta con la TVAmerica!

Due settimane or sono, nell'ambito della manifestazione CON-VIViO organizzata a Monza da La Chiave di Giano, nell'arco di due giorni partecipo:
  • al live Anger Control di Stefano Padovan (A.L.T.), che come situazione iniziale ha una seduta di terapia di gruppo. A Los Angeles.
  • a una "demo" della campagna live Lucciole e Lanterne del gruppo Bergamo di Mezzo, unico evento che non rientra nel discorso che sto facendo - anche perché era essenzialmente uno scenario fantasy.
  • all'ottimo Love is Blue di Fabrizio Bonifacio (che già conoscevo e di cui sono un sostenitore), piccolo capolavoro di suspense che utilizza (molto bene) i classici temi cinematografici del serial killer folle e del "gioco mortale", ma ponendo i giocatori in maniera molto convincente nel punto di vista delle vittime - persone normali la cui vita viene improvvisamente stravolta. Ambientazione? Da qualche parte in America.
  • al magnifico Dubbio (Doubt), di cui anzi mi sono ritrovato in maniera imprevista a essere il "regista" (per la seconda volta nella mia vita, e sempre con grande piacere). Si tratta dell'edizione italiana di un gioco i cui autori sono svedesi. I personaggi principali si chiamano Tom, Julia, Peter e Nicole. (*)
Aggiungo che avevo in programma (ma la cosa è poi saltata per il - prevedibile - dilungarsi di Dubbio) di partecipare al live Sturm und Drang, creato internamente a La Chiave di Giano: un live tutto incentrato sui profondi drammi interiori dei molti personaggi e ambientato, come ho poi scoperto, nei non-luoghi della estrema provincia statunitense come visti in film quali Clerks.

Are you sensing a pattern here? Well, I am.

Non vedo perché "l'ambientazione di default" per i giochi di produzione italiana, giocati in Italia, quando non è fantasy debba essere "l'America". In particolare perché "l'America" rischia di risultare essa stessa un mondo di fantasia: per la maggior parte di noi è l'ambientazione dei film di Hollywood, qualcosa di visto in TV, un mondo conosciuto solo attraverso opere di fiction... non la vita vera.
E questo è un difetto di design.
Se abbiamo la volontà di "mettere in gioco" problemi reali, di far provare ai giocatori esperienze anche estreme, ma di persone vere... Oppure, se vogliamo partire da questo senso di realtà anche solo per poi appositamente stravolgerlo, come accade spesso nei giochi horror o nei thriller... allora, l'utilizzo della pseudo-America come "setting" è un errore di design. Significa introdurre un ulteriore filtro tra giocatori e gioco (come se ce ne fosse in qualche modo bisogno!): il filtro di un mondo praticamente fantasy, appunto, perché esperito solo mediante fiction. Un appiglio in più per giocare "safe", se si vuole, ma non certo una spinta in più a mettersi intimamente in gioco.

* Dubbio, se si vuole, ha anche una giustificazione, nel fatto di essere "l'edizione internazionale" di un gioco svedese. Va riconosciuto che proprio l'editore NarratTiva, là dove era veramente indispensabile al funzionamento del gioco -- e cioè con Sporchi Segreti/Dirty Secrets -- ha osato un adattamento che non fosse semplice traduzione linguistica, "italianizzando" il gioco come infatti si doveva. Ma la prossima volta che giocherò a Dubbio voglio provare, sinceramente, a cambiare i nomi dei personaggi con versioni italiane. Basterà questo a togliere i giocatori-attori dall'imbarazzo (sempre palpabile) di non poter dichiarare alcunché di geograficamente connotato poiché non sono in alcun luogo, come in certi vecchi adattamenti televisivi Mediaset di serie animate giapponesi?

Wednesday, November 25, 2009

Un semplice componimento paesaggistico


È fatto di lastre di piombo
il voltone di cielo che sta sopra Bologna

e le gocce di nebbia che m'investono il viso
non sono ancora pioggia,

e la torre del castello che sovrasta la piazza
coronata di crudele scherno
è vestita di gialli invernali e di fumo di luce

e inaudibile pesta con forza su timpani morti
per chiamare la folgore.

Smesse le tradizioni disneyiane festeggerò quest'anno alla maniera antica:

immolando un'innocente sull'altare bruto delle mie speranze.


Saturday, August 15, 2009

The underdog shall inherit the earth

Inizialmente questo post, rimasto in the making per oltre una settimana, doveva intitolarsi: "Della libertà, della proprietà intellettuale, della storia della cultura umana e di vecchi videogiochi". Titolo ambizioso, per intraprendere un discorso su quella che è stata essenzialmente una coincidenza... o un caso di en (per i miei due o tre lettori che conoscono il giapponese).

Se qualcuno fa caso al mio "stato" su Gtalk avrà forse notato come fra una e due settimane fa, per alcuni giorni, ho dedicato il più del mio tempo e del mio entusiasmo a installare un sistema operativo diverso da Windows (su uno dei miei computer, a titolo di esperimento, aggiungere a piacere altri qualificatori limitativi che mostrino quanto conservatore sia comunque il mio approccio). Sebbene la "scintilla" iniziale sia stata un'altra, è rilevante come "diverso da Windows" sia quasi sinonimo di free software e/o di open source. Vi è in me un sempre crescente - per quanto poco informato e certamente superficiale - entusiasmo per il software libero. Perché? Neanch'io lo so, con esattezza: è un'infatuazione con una forte componente istintiva, forse irrazionale. A parte il mio crescente rifiuto della "pirateria come comportamento di default" (come si usa qui in Italia), credo ci sia in me un'insoddisfazione, finora inarticolata, per come funziona la proprietà intellettuale nel nostro mondo. E sono qui a scrivere appunto per articolarla.

Che cosa c'entra tutto questo con L'Orgasmo Cerebrale, o almeno col mondo del gioco? Non ne avevo idea nemmeno io - né infatti pensavo di scriverne in questa sede - finché una notte non mi sono imbattuto per caso in questa intervista (grazie a Play This Thing per la segnalazione). Si tratta di un testo che ho divorato, incapace di staccarmene, calamitato dalle profonde implicazioni e dagli spunti che offre nonostante l'apparente semplicità.
Sarinee Achavanuntakul (che deve essere una persona estremamente interessante) è la fondatrice di Home of the Underdogs, forse il più leggendario sito di abandonware. Conoscevo "The Underdogs" da utente, o da utente dei suoi siti revival - ai quali mi sono abbeverato più volte per saziare la mia occasionale ma intensa sete di retrogaming - ma ammetto con una punta di vergogna che fino a ieri ignoravo la vera storia di questo progetto, a partire dalla silenziosa lotta per sopravvivere fatta di continui trasferimenti.
Sarinee e i suoi amici sono stati per anni i curatori di un museo clandestino nel quale una parte della nostra storia mediatica e culturale (i giochi per computer, e in particolare quelli mai assurti a icone mainstream, come il mio amato Darklands) è stata preservata contro la volontà delle compagnie ufficialmente detentrici della "proprietà intellettuale", le quali ultime l'avrebbero altrimenti cancellata senza molte cerimonie.

Chi si trova qui a leggere questo blog, presumo, non si "scandalizza" certo per il mio considerare un mucchio di vecchi videogiochi come una significativa porzione della cultura della nostra epoca, da conservare per i posteri. Bocciata questa potenziale divagazione nella divagazione, ne suggerisco allora un'altra: un momento di riflessione sulla fragilità di tale porzione della nostra cultura.
Nel breve periodo in cui studiai un poco di assiriologia (per la verità un "termine cappello" poco sensato sotto cui la prassi universitaria raggruppa lo studio di tutte le antiche popolazioni mesopotamiche e limitrofe, di tutte le antiche lingue semitiche e proto-semitiche e del sumerico), non oso nemmeno provare a contare quante volte nei testi - nelle comode trascrizioni su carta dei testi a uso di noi studentelli - ho incontrato indicazioni di "rottura": vale a dire, letteralmente, porzioni di testo mancanti a causa di danneggiamenti del supporto di argilla che lo hanno reso illeggibile. Danneggiamenti dell'argilla. Ma lo studioso si accontenta, e con impegno si dedica a tradurre (o forse, visto lo stato della nostra conoscenza di quelle lingue, dovrei dire a decodificare) quei testi pur pieni di lacune.
Ma se per assurda ipotesi gli archivi reali di Ebla, invece che di iscrizioni su argilla leggibili a occhio nudo, fossero stati pieni di dati leggibili solo a macchina? Che cosa farebbe uno studioso con dei supporti informatici contenenti file di dati vecchi di migliaia di anni? Prima ancora di potersi cimentare con la decifrazione della lingua di quei testi (se di testi si tratta), dovrebbe essere in possesso di tutte le informazioni necessarie a ricostruire oppure emulare un computer a loro coevo. I dati archiviati per una lettura a macchina, e non per l'uso diretto dell'essere umano, sono immensamente più vulnerabili ai danni materiali: danneggiamenti dell'entità di quelle lacune tanto comuni sulle tavolette sumeriche implicherebbero, presumibilmente, la totale o quasi totale irrecuperabilità dei dati. Più tecnologicamente sofisticata diventa la nostra cultura, più vulnerabile essa diventa ai danni materiali prodotti dal tempo... più fragile e più bisognosa di cure per poter essere tramandata alle generazioni future.

Sarinee e i suoi amici lavoravano appunto a conservare la nostra cultura per le generazioni future... no, per la generazione presente addirittura, tanta è la volatilità delle opere che cercavano di esporre in quel loro "museo". Lo facevano servendosi di quella che è la forza dei file di dati rispetto alle iscrizioni su argilla, l'altra faccia della loro fragilità: la riproducibilità immediata e illimitata che ne è possibile. Ed ecco che la cosa più affascinante, più toccante che si legge in quell'intervista è la constatazione di come - mentre magari i creatori veri e propri delle opere applaudivano lo sforzo - i loro proprietari ufficiali lo osteggiavano, troppo miopi forse per cogliere il valore di ciò che possedevano e quindi l'importanza degli sforzi volti a tramandarlo.
Non è questa un'aberrazione? A che serve, e qual senso può avere, che la proprietà intellettuale - cioè la proprietà di un'idea, non di un oggetto! - passi legalmente nelle mani di altri che non l'autore dell'idea stessa? Che cosa ce ne facciamo di leggi che vincolano la circolazione di idee alle stime di potenziali guadagni formulate da qualche azienda, pronta a lasciar cadere nell'oblio frammenti della storia della cultura umana piuttosto che "regalarli" al dominio pubblico?
La giustificazione, la presunta necessità di leggi che regolamento la "proprietà intellettuale" di norma fa riferimento agli autori: queste leggi dovrebbero esistere per consentire alle persone di essere retribuite per le proprie idee, ovvero di guadagnarsi da vivere creando. Il legittimare l'alienazione delle idee con passaggi di proprietà a terzi e la loro silenziosa soppressione da parte di proprietari incuranti non mi sembra in alcun modo necessario, o anche solo utile al presunto scopo.

In una discussione del mese scorso su Story Games, il grande Ralph Mazza (l'utente "Valamir") si produce - con l'acidità, l'intelligenza e la libertà da compromessi che sempre lo caratterizzano - in una interessante analisi dello stato della "proprietà" nella società dei servizi. Se condivido la sua analisi, non condivido però la sua ideologia di fondo (pur essendo io sospettoso verso il "sistema" esistente almeno tanto quanto lo è lui): che il "diritto alla proprietà" sia una delle libertà fondamentali dell'uomo. Concezione molto tipica della cultura anglosassone, quest'ultima, nevvero?
Se lasciamo da parte i sentimentalismi e osiamo valutare in maniera astratta, puramente razionale, è subito evidente come la "proprietà" si caratterizzi come restrizione della libertà altrui. Più che essere un "valore" in se stessa, essa è un "male necessario", forse "il male minore": una tappa nella lotta per la sopravvivenza dell'individuo contro un sistema avverso.
In altre parole, sono l'ingiustizia e i difetti del sistema esistente - nella più ampia accezione possibile - che ci costringono a rifugiarci nella proprietà dei beni e delle idee come unica possibile tecnica di autodifesa. Un sistema giusto e equo, al contrario, provvederebbe alle necessità degli individui e li tutelerebbe dove sono deboli; nessuno sarebbe costretto ad armarsi per autodifesa, nessun bene sarebbe eccessivamente scarso, nessuno avrebbe bisogno di possedere cose - o idee.
(Beninteso, un ipotetico "sistema perfetto" potrebbe essere messo in atto solo dalla cooperazione di tutti gli uomini della Terra, non certo mediante l'imposizione dall'altro da parte di una minoranza "armata" di particolari poteri.)
Ma finché parliamo di proprietà dei beni materiali, è ovvio che ogni discorso sulla sua "non necessità" non può proporsi se non in toni largamente utopistici, entrando in gioco la natura stessa, ovvero limiti alla disponibilità di risorse sul pianeta non imposti in alcun modo dalla volontà dell'uomo. Presumo che anche per il più idealista degli anarchici di estrema sinistra una certa dose di tolleranza per il concetto di proprietà dei beni sia inevitabile, strettamente connessa all'idea basilare che il limite "giusto" alla libertà dell'uno ha inizio laddove si infrangerebbe altrimenti la libertà dell'altro.
Non così è per la proprietà delle idee, giacché le idee sono infinitamente riproducibili da uomo a uomo al di là di ogni restrizione imposta dalla materia: ogni limitazione alla proliferazione di idee è deliberatamente imposta mediante apposite sovrastrutture artificiali.
Il vero problema, in realtà, l'unica possibile fonte di scarsità di un bene culturale e immateriale è la deliberata obliterazione di esso da parte del detentore della cosiddetta proprietà intellettuale. Oggi che il contenuto di un libro, per esempio, non è più vincolato in maniera univoca alla materia cartacea su cui lo si stampa, ma può essere replicato infinitamente ed indefinitamente con mezzi virtualmente privi di costo... oggi tuttavia si creano leggi, e oltre alle leggi ritrovati tecnologici con cui attuarle, per far sì che l'informazione possa nonostante tutto essere trattata ancora come un oggetto e possa essere distrutta. Perché infine è di questo che si tratta. Che cosa mi fa desiderare, che cosa mi rende necessario l'essere "proprietario" per esempio di un e-book? La consapevolezza che il "proprietario vero", il legale detentore dei diritti, ha facoltà di negarmi l'accesso alle informazioni. Di cancellare il file, addirittura, e potenzialmente di negare per sempre l'accesso a quelle informazioni al mondo intero.

Perché mai il diritto alla distruzione della conoscenza dovrebbe essere tutelato? Ipoteticamente, per assicurare una fonte di reddito agli "autori"... cosa che invece tutti sappiamo non essere vera. Sappiamo benissimo che gli editori, coloro che un tempo possedevano l'informazione solo col possesso dei mezzi materiali la sua archiviazione e diffusione, si sono affrettati a sviluppare nuove dottrine della proprietà delle idee mano a mano che gli sviluppi della tecnologia e dell'economia mondiali minacciavano, diversamente, di rendere irrilevante la loro esistenza. La proprietà intellettuale non esiste che per assicurare la conservazione degli editori.

La vera libertà è l'accesso illimitato alla conoscenza, per tutti.

Letteratura, testi accademici, software, giochi... Se ogni informazione fosse libera e pubblica, non ci occorrerebbe esserne "proprietari" in alcuna forma per vederci garantito l'accesso a ciò di cui desideriamo usufruire. Il diritto fondamentale da salvaguardare è il diritto di accesso, non la "proprietà".

Questo in un mondo perfetto, ovviamente, nel quale i "creativi", anzi, i creatori non rischiano di morire di fame. Ma se fosse questo il vero scopo delle legislazioni vigenti, chiunque potrebbe constatare il loro fallimento. Vi sono concrete e realizzabili alternative?
Forse le sovvenzioni statali per "l'arte", come si usa nei paesi nordici (ed è cosa risaputa che ne sono state assegnate anche a game designer). Il pericolo di un metodo del genere, nella sua attuazione, è il mettere gli autori alla mercé di una giuria (non necessariamente competente!) incaricata di decidere che cosa sia o non sia davvero "arte" e quale arte "valga di più", una giuria assegnata a soppesare l'utilità dell'arte: intellettualmente aberrante, è innegabile.
Intellettualmente aberrante, certo, ma di più o di meno della realtà attuale nel resto del mondo - per cui la sopravvivenza di ogni sedicente o aspirante "artista" dipende in toto dalla sua capacità di vendere le proprie "opere" come prodotti d'intrattenimento? La differenza è tutta qui: invece di avere a che fare con un pool di critici, ci si confronta con una giuria popolare.

Si tratta di un discorso che in qualche maniera riguarda tutto e tutti, dagli "artisti" in senso più tradizionale fino agli sviluppatori di software, passando necessariamente anche per i creatori di giochi. La realtà odierna della concezione di "proprietà intellettuale" raramente tutela i nostri interessi, e in ultima analisi legittima comportamenti che sono lesivi della cultura umana. Eroico è allora il gesto di chi si sottrae attivamente a questo meccanismo e di chi vi oppone resistenza... Eroici sono i "pirati" di Home of the Underdogs, in realtà guerriglieri per i diritti culturali del videogioco. Ed eroici sono, soprattutto, quei creatori che consegnano la propria opera all'Umanità senza tenerne in ostaggio una chiave di scorta: dalle migliaia di programmatori che contribuiscono da volontari ai maggiori progetti di free and open source software, fino a quei benemeriti autori di gdr i quali - seguendo l'esempio particolarmente eccellente di Clinton R. Nixon con The Shadow of Yesterday - non solo distribuiscono gratuitamente giochi di alta qualità e lungamente playtestati, ma ne consentono ad altri il libero utilizzo come base per sviluppi ulteriori.

A tutti gli altri - a chi deve necessariamente premurarsi di trarre un reddito dalle proprie creazioni, poiché altrimenti dovrebbe scendere a compromessi quanto a tempo di sviluppo e qualità finale - raccomando di conoscere le norme che regolano la proprietà intellettuale e di non alienarsi mai le proprie opere cedendone il controllo a terzi. Impariamo dagli sfortunati errori dei nostri predecessori: per come funzionano le cose, una rigorosa filosofia "indie" - come definita su The Forge, ovvero di totale e assoluta creator ownership - è la prima e unica linea di difesa contro le più comuni degenerazioni che il copyright consente.
Sia messo agli atti: questa ultima mia affermazione rappresenta una posizione assolutamente pragmatica, tutto il contrario che utopistica. Nel mio mondo ideale, invece, nessuno - neppure l'autore in persona - avrebbe mai il diritto di far scomparire dalla circolazione un prodotto culturale: la prima libertà da tutelare non sarebbero mai i capricci (o l'interesse) di chi vuol distruggere o rinchiudere ciò che ormai ha creato, bensì l'accesso alla conoscenza da parte dell'Umanità intera.
(Nell'immagine: un completo e totale "underdog".)

This post powered by PC-BSD, a n00b-friendly FreeBSD distribution.
Con molti ringraziamenti a Lapo Luchini per la sua costante e inestimabile consulenza.

Thursday, May 28, 2009

Ma com'era poi andato a finire il Lil' Game Chef?

Questo post è rimasto in sospeso per circa 1000 anni, ma in fondo anche questo è tipico di me...

I lettori di questo blog potrebbero ricordare che Aeonaut, da me scritto per il Little Game Chef 2009 di Walmsley, Morningstar & Tuovinen, fu automaticamente squalificato perché inviato (circa un minuto) oltre la deadline. La mia reazione a questo fu nell'ordine del "comunque l'unica ricompensa possibile è la notorietà, giusto? perciò la otterrò ugualmente!", ovvero tentare in ogni modo di far parlare del mio elaborato nonostante - o proprio grazie a - la sua squalifica d'ufficio.
In questo, Eero Tuovinen mi è cortesemente venuto incontro, facendomi il favore di leggere il testo e commentarlo ugualmente (qui un divertente e interessante scambio tra me e lui a riguardo): commenti contemporaneamente molto positivi e molto negativi, tali da offrire lo spunto per un'ulteriore discussione, che prima o poi certamente inizierò.
Anche sul forum temporaneo dedicato alla critica alla pari per il Lil' Game Chef (forum che purtroppo sembra essere già andato offline) ho ottenuto una pletora di interessanti recensioni - perloppiù disgustate, ma questa sincerità la apprezzo! - per alcune delle quali, fra l'altro, debbo ancora sdebitarmi. E lo farò, sia pure con i tempi geologici che mi sono propri.


Ma se riesumo ora la questione è perché nel frattempo Aeonaut sembra aver suscitato l'interesse di alcuni amici italiani, a cominciare dal caro Andrea Castellani (con un'interessante circolarità karmica, in ragione del fatto che proprio dal suo lavoro ho tratto una definizione operativa di immedesimazione/immersion che per Aeonaut è stata fondamentale). Neanche i debiti di questa mia creazione nei confronti di Pathos sono passati insosservati, a quanto pare...
Mi son giunte quindi alcune esortazioni a tradurre Aeonaut in lingua italiana, di cui sono in verità lusingato, ma le disattenderò, almeno per il momento. Non vorrei, infatti, limitarmi a una traduzione: ci sono elementi del gioco (frettolosamente messo insieme nel corso d'una settimana) che, alla luce delle recensioni, vorrei cambiare, e la prossima "edizione" dovrà includere tali cambiamenti, anche se sarà redatta in italiano e non in inglese.
Questo vuol anche dire che, se qualcuno dei miei amici italiani (fra i quali annovero tutti i lettori di questo blog, ivi inclusi coloro che non ho mai incontrato) desiderasse provare il gioco nella sua attuale incarnazione, come presentato al contest, lo esorto a farlo presto, e utilizzando come "manuale" quello in inglese. È cosa che non dovrebbe presentarvi alcuna particolare difficoltà, secondo me, trattandosi di un puro e semplice testo di istruzioni, e non di una raccolta di contenuti, fatta salva una singola pagina d'ambientazione il cui vocabolario specifico è comunque per almeno metà in latino, né vi sono inclusi "hand-out" per i giocatori. Se qualcuno, anzi, dovesse tentare un tale playtesting, lo prego di parlarmene, prima e dopo! Potrei addirittura, con un po' di fortuna, aver modo di partecipare. Sarebbe senza dubbio il primo collaudo di Aeonaut, e i suoi esiti influirebbero enormemente sulla riedizione in italiano che farò.

Sunday, May 3, 2009

La pressione a sentirsi "autore"

Questo nostro piccolo mondo di praticanti del gdr in Italia è irrimediabilmente intriso di questa fortissima "ambizione d'autorialità".
Son qui che penso all'imminente AmberCon (ovvero la convention "del" Flying Circus, al di là delle peripezie storiche del nome, che quest'anno si svolgerà all'interno di Este in Gioco), e mi tormento pensando di dover assolutamente inserire nel palinsesto un "EVENTO MIO" - qualsiasi cosa ciò significhi, in fin dei conti. Tutti i progetti iniziati, magari da anni, e non ancora compiuti, sento una specie di obbligo morale a ultimarli e playtestarli proprio entro le prossime 3 settimane, onde poterli poi offrire in quel di Este a folle oceaniche di fan adoranti...
Lo pseudo-Braunstein che ho fatto fioretto di realizzare, prima o poi? Nel mio delirio autoindotto, già m'immagino a scriverlo interamente durante il volo intercontinentale Malpensa-Narita e relativo ritorno, per poi ritrovarmi esattamente due giorni dopo a proporlo al pubblico di una convention. Il che significherebbe, per dirne una (a parte la piccola ineleganza di presentarmi con un gioco mai playtestato, e a parte l'usuale stupidità di inserire in un palinsesto un evento non ancora scritto), proporre al pubblico un mucchio di schede del personaggio scritte a mano, nella "chiarissima" grafia per cui sono famoso. O magari comprarmi un portatile appositamente per questo?

Un evento MMMIO...!!!


E che cosa cazzo sarebbe, "un evento mio"?!

Semplicemente, è un retaggio. Un retaggio di quel "Master" con l'iniziale maiuscola che è contemporaneamente scrittore del dramma, regista della sua messa in scena, e forse anche interprete di più d'uno dei personaggi principali. Il master-intrattenitore, la cara vecchia scimmietta danzante, che si nobilita dicendosi "autore". Ma la sua vita è dura, povera bestia, e deve pur togliersi qualche soddisfazione, no?
È un retaggio di una gran parte della mia storia personale, che è difficile scrollarsi di dosso tutto d'un tratto. L'ultimo strisciante rantolo di quel me stesso che credevo sepolto da molti anni, il master "che gli avrebbe fatto schifo usare un'avventura preconfezionata". Certo... Quando non s'aveva un cazzo di cui vantarsi - né abilità né esperienza, né umiltà né palle - s'aveva orgoglio: abbastanza da riempirne una cisterna, o due.
Nei miei amici del Flying Circus, come anche in altra gente che fa live d'un certo valore - in gran parte della parte meglio del gdr italiano, insomma - la tendenza di cui sopra assume forme di gran lunga meno tumorali, che sento di commettere un'ingiustizia a paragonare a quelle del teenager (anagrafico oppure onorario) il quale conta sul tavolo da gioco come propria unica fonte di prestigio micro-sociale... eppure persiste. Persiste in forme intellettualmente tollerabili, ma insidiosamente pervicaci; e si nasconde, più di tutto, nella nostra ambizione mai del tutto sopita a sentirci autori. Ci arroghiamo le forme, allora, dell'essere autori di libri o d'altro: officiamo il sacro rito di scrivere il nostro nome sopra o sotto un titolo. E, con ogni volta che lo facciamo, un po' rischiamo di mortificare l'oggetto del nostro amore (il gdr, intendo): di svilirlo a calco d'altri più vecchi mezzi d'espressione.
Un game-designer e un teorico del gdr del calibro di Ron Edwards ci rammenta, fra le pagine di Spione, che i partecipanti a una sessione di Story Now sono tutti e in egual misura co-autori. Da un differente percorso arriva a conclusioni simili, nel suo Vademecum dello Stile Carsico, Andrea Castellani - che stimo come una delle menti più brillanti del live italiano, pur se rifiuta per la propria attività la categorizzazione di "gioco": i partecipanti al LARP sono co-autori di qualcosa, e l'organizzatore non è "più autore degli altri". Mi colpiscono ancora di più le conclusioni di Andrea quando penso all'assoluta preminenza, nel percorso che ve l'ha condotto, di quella struttura "a schede dei personaggi" che (più spesso che no) può consistere in una storia già scritta servita sbriciolata, con la "riuscita" del live che allora si misura sull'aderenza al copione non-del-tutto-scritto depositato in una singola testa. (Per conto mio, invece, io mi sono da tempo convinto che anche in quei casi un "personaggio" non esiste, non nasce, finché la sua "scheda" di carta non incontra la persona intera di un giocatore.)

No, questa volta alla AmberCon di Este io porterò eventi "miei" in tutt'altro senso: le mie scelte, giochi che mi piacciono di designer che ammiro, e cose che nessun altro avrebbe altrimenti pensato di portare. Avrò cura, soltanto, di scegliere giochi che per struttura ritengo capaci di offrire un'esperienza completa (la loro esperienza, vasta o limitata che sia) entro i tempi che mi sono dati. Non farò "demo", insomma: non nel senso di assaggi di gioco in pillole. (Ammetto, tuttavia, che le partite "demo" fatte recentemente a InterNosCon sono state per me soddisfacenti oltre ogni mia più ottimistica aspettativa.)