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Thursday, June 13, 2013

Recensione Game Chef 2013: “Legione Straniera”, di Iacopo Frigerio

[Con colpevole ritardo, ecco finalmente l'ultima delle mie recensioni "ufficiali" per il Game Chef!]

Frigerio è autore ed editore di giochi di ruolo fra i più prolifici in Italia negli ultimi anni, sempre mantenendo un profilo che definirei “d’essai”. Legione Straniera (titolo provvisorio, presumo) è la sua proposta per questo Game Chef, e si presenta alla lettura come un elaborato scarno e di certo scritto molto rapidamente, dalla forma quasi di appunti per una futura stesura, e tuttavia (anzi, forse proprio per questo) intriso di una elevata professionalità.
Professionalità perché l’autore, nel suo approccio alla competizione, non ha tentato (per esempio attraverso la grafica o altri aspetti della presentazione) di costruire l’illusione di un prodotto finito, ma si è concentrato esclusivamente sul design delle meccaniche di gioco realizzando una prima bozza strettamente funzionale al playtest. Non dico che questo sia l’unico approccio “corretto” al Game Chef, né necessariamente il migliore (del resto, accade di frequente che alcuni componenti della presentazione agiscano da fattori determinanti del gameplay, comportandone il coinvolgimento imprescindibile in ogni stadio del processo di design), ma mi appare come un approccio estremamente onesto, e anche responsabile: nel senso che, quando un designer ha fatto un così visibile investimento di lavoro nel primo concept di un gioco salvo presentarlo come bozza così chiaramente provvisoria, ciò sembra implicare che si stia fin dall’inizio assumendo la responsabilità di continuarne lo sviluppo, perché riconosce che questo è solo il primo passo di un processo lungo e articolato.

L’ambientazione

Trovo la scelta di un’ambientazione storica un’ottima mossa per una competizione a tempo come il Game Chef. Intanto, come prova di coinvolgimento dell’autore nella tematica: poiché l’uso di un’ambientazione storica presuppone un lavoro di ricerca, e quindi nel contesto di uno stretto limite di tempo dimostra un interesse preesistente per un argomento che il designer in qualche modo ha “sentito risuonare” con il tema e gli ingredienti della competizione. Troppo spesso, invece, noi concorrenti (e io per primo ne ho una lunga storia) siamo colpevoli di arrampicarci sugli specchi costruendo ex novo attorno agli ingredienti ambientazioni fantascientifiche o fantastiche che, inevitabilmente, risultano poco approfondite, deboli o farraginose.
Poi, perché è proprio un’ottima mossa come strategia di presentazione: invece di dedicare pagine alla descrizione di un mondo, consumando tempo di lavoro e parole (entrambe risorse limitate), è sufficiente che l’autore indichi in breve quelli che considera gli aspetti salienti dell’argomento, lasciando ai lettori il compito di fare ricerche e approfondire, se lo vogliono. Letture specifiche sulla Legione Straniera francese ne esistono sicuramente a iosa, e oggi viviamo in un mondo in cui l’accesso all’informazione storica è relativamente facile. Beninteso, in future versioni del testo mi aspetto comunque (per cominciare) una bibliografia ragionata, strumento con cui il designer potrà orientare i giocatori verso un taglio interpretativo conforme a quello che lui stesso ha seguito nel suo design.
Mi colpisce favorevolmente anche la scelta, abbastanza originale seppur non senza precedenti, di prendere come ambientazione non un periodo storico e un luogo, bensì l’intera storia di un’istituzione. Tuttavia, penso anche che non toglierebbe nulla al gioco se in future edizioni del testo l’autore decidesse di concentrarsi, per esempio, solo su una specifica guerra: sarebbe una scelta decisamente più pratica se si volesse presentare, insieme alle regole, un compendio di informazioni storiche e di costume tale da rendere solo opzionali ulteriori letture.

Le meccaniche

Nessuna delle meccaniche impiegate in Legione straniera è di per sé particolarmente originale: si tratta piuttosto di un buon mix di elementi già visti in molteplici altri giochi, di ruolo e non. Un design “frankenstein”, quindi, e complessivamente ben fatto in questo, che è prova di buon “mestiere” ma soprattutto della vasta erudizione ludica dell’autore: sarà interessante leggere, in una futura stesura, una ludografia delle sue fonti d’ispirazione dichiarate. Tiene insieme il tutto la strategia di design più classica e meglio collaudata: affidare l’inquadramento di tutte le scene, l’introduzione di avversità sia immaginate sia meccaniche, la gestione delle poche informazioni segrete e, oserei dire, “il ritmo” del gioco a un singolo giocatore, qui chiamato “Guerra”. Ci vuole sempre un pizzico di coraggio e una certa sicurezza di sé per far questo in una competizione del genere, in cui si viene giudicati anche per l’originalità, invece di tentare a ogni costo impianti di gioco più “alla moda” o anche deliberatamente “strani” che poi, tante volte, si rivelano eccessivamente complicati o comunque non funzionanti.
La meccanica di risoluzione dei conflitti (terminologia non impiegata nel testo, ma che non esito a utilizzare per analogia) è basata sui dadi e sull’azzardo e prevede una “posta” sempre fissa e non negoziabile: il legionario viene ferito oppure no? La componente di azzardo è ciò che lega questi tiri di dado alla fine del gioco, visto che al giocatore si richiede di “risparmiare” dadi nel corso della partita per poter poi ottenere un finale positivo per il proprio personaggio (l’obiettivo ideale è risparmiare 11 dadi), ma cercando comunque di superare la soglia di difficoltà di volta in volta crescente per non rimanere senza più chance (ogni personaggio può infatti sopportare solo due ferite, la terza è mortale; e la morte è, nell’ottica di questo gioco, un finale negativo). La fortuna ha ruolo importante, perché solo i dadi che risultano in un 5 o un 6 possono essere “messi da parte”. Un ulteriore parametro distinto, la Brutalità, incide su questo equilibrio, rendendo più probabile evitare le ferite ma anche rischiando di condannare il personaggio a un finale comunque negativo; a differenza di quanto discusso finora, l’accumularsi di Brutalità (e della sua controparte, Pietà) dipende esclusivamente dal comportamento del personaggio “nella fiction” e dal giudizio che ne danno gli altri giocatori, e quindi introduce nel sistema di risoluzione e giudizio finale una forte componente fiction=>meccaniche (cosa in questo contesto indubbiamente positiva).
Intravedo però alcune possibili pecche in questa struttura. Una è la mancanza di chiarezza rispetto ad altri possibili conseguenze a breve termine del conflitto, che non siano la ferita: il testo dice che anche in caso di fallimento il personaggio “può comunque essere riuscito nella sua azione ”, ma chi lo decide? Si direbbe, parte il giocatore stesso (che decide come il proprio personaggio viene ferito) e parte i compagni (che narrano chi e come lo trae in salvo), mentre Guerra non sembra prendere parte nella decisione: ma ciò rimane implicito. Qui il rischio è che un protagonista possa prendere una ferita eroica “gratis” nelle ultime fasi del gioco: se arrivo al penultimo turno senza aver subito ferite, e i dadi determinano nell’immediato “solo” il mio ferimento, poiché è solo la terza ferita ad avere conseguenze sono ormai “al sicuro”. A questo punto non avrei più incentivi a far agire il mio personaggio con Brutalità, e mi limiterei a tirare i dadi sperando di ottenere quanti più 5 e 6 possibili, che ovviamente risparmierei tutti. Se invece, per esempio, Guerra avesse facoltà di determinare tutto ciò che non riguarda direttamente la ferita in caso di tiro fallito, allora la minaccia di conseguenze su PNG (che possono aver sviluppato una dimensione affettiva nel corso dei precedenti turni di gioco), sull’esito complessivo della missione bellica o altro potrebbe rendere meno automatica la scelta di mettere da parte dadi. Una soluzione alternativa allo stesso problema, s’intende, è quella di rendere il numero di turni per partita variabile invece che fisso, ma ciò implicherebbe andare a modificare una struttura macroscopica che appare già valida solo per risolvere quello che tutto sommato è un dettaglio, e quindi non credo sarebbe la miglior scelta di design.
Altra possibile pecca riguarda il sistema della Fiducia, un meccanismo ispirato a The Mountain Witch di Timothy Kleinert e derivati (Cold City di Malcolm Craig, il sottosistema della Hx in Apocalypse World di Vincent Baker). I punti Fiducia assegnati ai compagni permettono di tirare dadi aggiuntivi, il che è molto importante nell’economia del gioco, specie a fronte della soglia di difficoltà crescente. Tuttavia, il contraltare, cioè l’unica ragione per non assegnare punti Fiducia a man bassa, è relativamente debole, perché solo quelli assegnati dalla vittima designata all’Infiltrato avranno conseguenze, e anche questo non è certo. Considerato che l’attentato avviene solo alla fine del gioco, e che mettendo da parte dadi nel corso dei vari turni il bersaglio accresce oltretutto la propria probabilità di salvezza, mi pare ovvio che la strategia di gioco ottimale sia quella di abbondare con la Fiducia: più dadi da tirare equivalgono a più dadi messi da parte e una minor probabilità di morte prematura, più dadi messi da parte a un finale più felice per il mio personaggio, e giunti al momento della verità se sono proprio io la vittima designata mi resta comunque almeno un’opportunità di salvarmi la vita; se invece fossi parco con la Fiducia tirerei meno dadi e rischierei quindi un finale triste, per tacere della maggior probabilità di morire comunque anzitempo. Infine, se l’Infiltrato sono io, non ho alcuna ragione meccanica di non elargire Fiducia a tutti: solo il rischio di creare sospetti mi indurrà a limitarmi un po’, se questo avvicina il mio comportamento a quello di tutti gli altri.
Possibili variazioni al sottosistema della Fiducia? Me ne vengono in mente almeno due, posto che rimanga com’è il ruolo dell’Infiltrato (tema che affronterò oltre). Una possibilità è eliminare i dadi-Fiducia, mantenendo solo i punti Fiducia: è una variabile in meno sul numero di dadi tirati, ma i dadi “aiuto” potrebbero comunque esistere, solo in proporzione fissa; e forse se si accettasse l’aiuto di un compagno sarebbe poi obbligatorio dargli il punto di Fiducia. Alla fine del gioco, se l’Infiltrato è il personaggio a cui la vittima designata ha accordato la Fiducia più alta (anche a pari merito!) l’attentato riesce automaticamente, altrimenti fallisce. L’altra possibilità a cui pensavo è cambiare il momento in cui l’attentato avviene: ogni volta che la vittima designata accetta il suo aiuto, è per il killer un’occasione di colpire, se decide di sfruttarla. In tal caso, l’esito andrebbe comunque determinato con i dadi, che però dovrebbero indicare separatamente anche se l’Infiltrato viene scoperto dagli altri compagni o meno.
Segnalo, infine, che non sono del tutto convinto da ogni singola voce della tabella dei finali. In particolare, che significa “in totale balia di Guerra, che potrà usarlo per il suo trastullo”? È colorito, ma non esattamente molto significativo. Si vuol forse lasciar intendere che, per esortare gli altri giocatori a mettere da parte dadi, il giocatore Guerra deve minacciarli di pesanti ritorsioni psicologiche qualora non lo facciano? Sono convinto che si possano progettare incentivi migliori, o quantomeno meglio espressi.

La gestione del gioco

A me sembra, comunque, che il vero cuore procedurale del gioco non stia nelle meccaniche fin qui esplicitate, bensì in quanto descritto (troppo affrettatamente) nel paragrafo “Le Scene e il Ruolo di Guerra ” e nell’incipit del successivo: in altre parole, in come viene condotto il gioco e come la “fiction” interagisce con le meccaniche, che poi hanno un solo “punto d’innesco”: «Guerra deve porre il personaggio di fronte a una sfida, una difficoltà o una scelta difficile.» Ma questa descrizione del punto d’innesco è fin troppo vaga, a parer mio, specie per assenza di contesto ulteriore.
La principale domanda a cui il testo non dà risposta è come il potere di ciascuno dei giocatori-protagonisti di “offrirsi volontari” per affrontare la sfida (di per sé un’idea interessante per come approssima un meccanismo narrativo e psicologico centrale a un racconto di cameratismo militare) interagisca, nella pratica, con l’inquadramento delle scene. Guerra è forse tenuto a porre esclusivamente sfide o problemi che riguardano tutto il “gruppo”, e che ciascuno dei personaggi che ancora non hanno agito nel Turno in corso possa offrirsi di affrontare? Se è così, si pongono limiti precisi alla tipologia di scene che Guerra può inquadrare, e se mi trovassi in questo ruolo sentirei decisamente il bisogno di indicazioni più dettagliate su come svolgerlo. O forse, questo “offrirsi” può o deve avvenire “out of character”, a priori, e poi Guerra ne tiene conto per scegliere quali scene inquadrare?
Altre domande che, come Guerra, sicuramente mi porrei riguardano il contesto presunto delle scene (solo momenti di operazioni militari, o anche “dietro le quinte” della guerra in corso?), le possibilità di suddivisione del turno in più scene (“strettamente connesse” può significare tutto o niente), la tipologia di problemi o ostacoli da contrapporre ai legionari, ecc. E come si gestisce un disaccordo tra due giocatori-legionari, nel momento in cui vogliano entrambi offrirsi? Non dubito che per alcune di queste domande la risposta giusta sia “fa’ come ti senti”, e questa è una risposta del tutto valida; tuttavia, sono certo che per almeno alcuni di questi fattori l’autore avesse in mente delle risposte molto precise, che però non ha inserito nel testo. Il problema, in altri termini, è che per un gioco così largamente affidato alla direzione di un singolo giocatore occorrono indicazioni su come svolgere questo ruolo, in assenza delle quali il documento è utile solo all’autore stesso per condurre un playtest “interno”, ma non comunica la sua visione del gioco a un lettore esterno come me.

Il ruolo dell’Infiltrato

Mi sembra che “l’anello debole” nell’attuale impianto del gioco, per quanto riguarda la complessità del contenuto e lo sviluppo psicologico dei personaggi, stia nel ruolo dell’Infiltrato. Potenzialmente questo sarebbe il personaggio per certi versi più interessante: che cosa mai può passare per la mente di un individuo che dedica sei anni a guadagnarsi la fiducia di un altro, esclusivamente con il proposito di ucciderlo? Una storia potenzialmente intrigantissima che il testo, invece, liquida in una riga e mezzo: «Uno di loro è un infiltrato, mandato per uccidere proprio uno degli altri personaggi, reo di aver abbandonato la causa .» Quale causa? Una qualunque, magari?
La verità è che, per come è strutturato il gioco, quello dell’Infiltrato è un “ruolo tecnico”, funzionale a dare un senso (pur con i limiti di cui già ho parlato) alla meccanica della Fiducia che, invece, negli altri giochi da cui è tratta si regge su circostanze per cui tutti potrebbero tradire tutti in ogni momento. L’ispirazione sorge dagli ingredienti del concorso (la “mela marcia”), ma non è ben sfruttata. Per come stanno le cose ora, l’Infiltrato è privo di identità: “è probabile” che le sue Eredità false e di copertura, il suo Segreto (la parte più intima di ogni altro personaggio) viene sostituito dalla scelta del bersaglio… bersaglio che, fra l’altro, è individuato praticamente a caso. Qualsiasi relazione indiretta sussista tra assassino e vittima designata dovrà essere improvvisata a posteriori, e oltretutto sempre nell’ignoranza del Segreto. L’evento insieme meno verosimile e più caratterizzante dell’intera vicenda (ho già sottolineato che si tratta di un inganno lungo sei anni?) rimane completamente privo di movente.
Sarebbe molto più interessante, credo, se la scelta del bersaglio e il movente dell’Infiltrato si legassero fin dall’inizio alla rete di Segreti presente. Per esempio, posso ipotizzare una soluzione in cui non si sorteggia l’Infiltrato con le carte, ma piuttosto dopo aver ricevuto i Segreti di tutti Guerra si prende una breve pausa di riflessione; se alcuni dei Segreti hanno un legame tematico con altri, Guerra può a questo punto passare bigliettini ad alcuni giocatori… Per esempio, se uno dei protagonisti avesse il Segreto “ex-membro del partito nazista” e un altro il Segreto “fuggito da un campo di concentramento”, Guerra potrebbe passare a quest’ultimo il messaggio: «Fra di voi c’è un nazista. Vuoi vendicarti?»; solo in caso di risposta affermativa, Guerra comunicherebbe al giocatore in questione l’identità del suo bersaglio (s’intende che Guerra dovrebbe avere uno scambio di bigliettini bianchi con tutti i giocatori ai quali non ha niente da comunicare). Con questo sistema potrebbero esserci contemporaneamente più “infiltrati” con bersagli diversi, o anche nessuno: non importa, perché l’equilibrio del gioco si regge sul sospetto. Potrebbe perfino esserci un infiltrato che ha per bersaglio un altro infiltrato che ha per bersaglio un terzo protagonista. Ovviamente questa è solo una proposta di variante costruita frettolosamente, ma dovrebbe rendere l’idea di ciò che intendo quando parlo di un “movente” per l’attentato finale.

In conclusione

Legione straniera è una raccolta di appunti ancora incompleti per un gioco che si prospetta interessante e avvincente, ma in cui sospetto alcune debolezze che dovranno essere sanate nel corso delle prossime fasi dello sviluppo. Consiglio a Iacopo, se non lo sta già facendo, di mettersi al tavolo e giocare, sottoponendo alla prova dei fatti questi miei dubbi o eventuali altri. Quando avrà verificato ed eventualmente corretto le meccaniche, potrà dedicarsi a redigere una bozza più estesa per il playtest esterno, in cui darà indicazioni più precise e dettagliate su come svolgere il compito di Guerra. Il tutto nell’ottica di arrivare, prima o poi, a un prodotto editoriale dalla presentazione meno succinta che dia spazio all’ambientazione storica, con un taglio personale ma senza la pretesa di esaurire l’argomento. Tutte queste cose suppongo però che l’autore, cui certo non fa difetto l’esperienza, le sappia già.

Thursday, June 6, 2013

Recensione Game Chef 2013: “Tu mi turbi”, di M. Soriani e M. Bulgarelli

Tu mi turbi è visibilmente figlio della stessa “scuola” di design da cui proviene Novanta minuti di Matteo Turini, gioco vincitore del Game Chef 2012: tratta di conflitti emotivamente molto intensi che potrebbero verificarsi nella vita quotidiana di chiunque, con una propensione verso le emozioni negative e senza il filtro del fantastico (mi è capitato di sentire dei detrattori etichettare questo “genere”, impropriamente, come “kitchen sink realism”); utilizza una meccanica a punti per determinare il finale del gioco in maniera parzialmente indipendente dalla volontà dei giocatori (una consuetudine di design che discende da La mia vita col padrone di Paul Czege) e assegna questi punti come conseguenza del comportamento dei giocatori durante il cosiddetto “gioco libero” (idea che ha un precedente e forse la sua origine in Bliss Stage di Ben Lehman). Il retroterra è evidentemente l’incontro tra i figli di The Forge e la scena freeform scandinava (il collettivo Vi åker jeep, la convention danese Fastaval, ecc.), quest’ultima divulgata in Italia dalle edizioni “in scatola” di alcuni celebri scenari uscite sotto etichetta Narrattiva; ma solo il tempo potrà dirci se questo fermento rimarrà solo una nota a margine di una nota a margine (l’infatuazione di alcuni game designer della East Coast statunitense per gli ambienti di Fastaval e Knutepunkt) o se rappresenterà l’inizio di una vera e propria nuova “scuola” di design in lingua italiana.
Nel complesso, il mio giudizio su Tu mi turbi è decisamente positivo. L’elaborato che mi è stato chiesto di recensire è professionale sia nella forma, sia nei contenuti, specie a fronte degli stretti limiti di tempo, e spicca anche in una competizione il cui livello medio di qualità è, mi pare, assai elevato. Questo e non altro è il motivo per cui, nelle righe che seguiranno, mi concentrerò soprattutto sui difetti, o più precisamente su quelli che individuo come i potenziali difetti del gioco. Farò questo nella speranza che le mie critiche siano utili agli autori in vista delle prossime fasi di sviluppo del prodotto, che non dubito potrà alla fine risultare assai pregevole.
Mi scuso se questa non è e non ha potuto essere una recensione basata su una prova pratica. I dubbi e le obiezioni che sollevo nascono quindi dalla mia esperienza generale e di altri giochi in qualche modo affini (fra cui buona parte di quelli che gli autori elencano come fonti d’ispirazione). Ben venga, dunque, se le mie perplessità dovessero un giorno essere messe a tacere dai fatti, come del resto spesso accade.

Designed for bleed?

La più fondamentale delle mie perplessità si articola in due parti: riguarda il provare emozioni come trigger meccanico e la maniera in cui ciò interagisce con l’esilità dei personaggi.
Cercherò di spiegarmi meglio… La meccanica centrale di Tu mi turbi è che quando uno dei giocatori ritiene di stare provando un’emozione da una certa gamma, o ritiene che il proprio personaggio starebbe provando una di quelle emozioni, interviene ad avanzare di un punto uno dei tre contatori. La principale differenza rispetto a meccanismi simili esistenti in altri giochi (il summenzionato Bliss Stage, S/lay w/Me di Ron Edwards, ecc.) è che di solito a fungere da trigger sono degli eventi immaginati estrinseci, tali che ogni giocatore al tavolo è nella posizione di identificarli quando si verificano, mentre in questo caso sono (prevalentemente) dei moti interiori, cosicché ciascuno è arbitro unico dei propri. Oppure, se prendiamo la scelta se attribuire un punto d’Amore o Pietà in Kagematsu di Danielle Lewon, che è quanto di più simile mi venga in mente a livello di sottigliezza, essa è appunto una scelta che si svolge relativamente a freddo, in un interludio tra scena e scena, consentendo alla giocatrice di concentrarsi esclusivamente su questo giudizio; in Tu mi turbi, invece, i giocatori sono chiamati a esprimere giudizi del genere a scena aperta.
Inoltre, l’uso del meccanismo deve obbligatoriamente avvenire una volta per scena: finché un giocatore non interviene sui contatori, la scena non può chiudersi. Ciò a mio avviso mette i giocatori sotto una certa pressione esplicita di “dover provare” quelle emozioni; o, meglio, di riuscire a individuarle nella fiction, direttamente o indirettamente. Sebbene (fatto molto positivo) ciascun giocatore abbia una scelta fra due sole possibilità, la gamma di emozioni che un dato scenario associa a ciascun contatore è pur sempre ampia e complessa abbastanza da non poter escludere del tutto l’insorgere di dubbi: «Sto soddisfacendo una sua esigenza, o mi sta solo usando?», potrebbe per esempio domandarsi il giocatore dell’Amante nel primo scenario, chiedendosi di conseguenza se avanzare uno dei suoi due contatori e quale.
La prima componente della mia perplessità, quindi, è il timore che i giocatori si trovino a dover dedicare un’eccessiva quantità di attenzione a “monitorarsi” mentre giocano, a chiedersi quali emozioni stanno provando, invece di “giocare e basta”. Questo costante obbligo di auto-consapevolezza non rischierà di trasformarsi in un’inibizione? Un espediente per aggirare in parte il problema è forse il concentrarsi sulle esplicite esternazioni di sentimento, che due partecipanti su tre possono articolare anche mediante “monologo interiore” e commenti che “appartengono” al personaggio anche quando provenienti da fuori scena; ma qui appunto emerge l’altro mio fattore di perplessità: i personaggi esili.
Nello scenario 1, “Lui” è “un uomo come tanti”, “Lei” è “una donna come tante”; nello scenario 2 abbiamo “una ragazza come tante” e “un ragazzo come tanti”. Si invitano i giocatori a definire liberamente i loro personaggi e la situazione in cui si muovono, ma le domande-guida proposte in ciascuno scenario sono volte esclusivamente a specificare i particolari della loro relazione a triangolo. Il rischio è che, nove volte su dieci, si cominci a giocare con personaggi che non sono definiti da altro che dalla relazione in cui sono coinvolti e da un vago stereotipo legato al genere (ma su questo punto tornerò dopo): questo è ciò che definisco un personaggio “esile”, cioè poco articolato a livello di design, privo di uno “spessore” che lo faccia emergere come una personalità “a tutto tondo” ben distinta da quella del giocatore.
Non vi è nulla di intrinsecamente “sbagliato” nell’usare personaggi esili, beninteso. È una scelta di design spesso usata con la finalità precisa di accorciare la distanza tra personaggio e giocatore, tipicamente allo scopo di massimizzare il bleed: esempi eccellenti di questa pratica si riscontrano nei Jeepform, compreso il “canonico” Dubbio (in cui però, a parer mio, i personaggi tendono comunque a uno spessore leggermente maggiore, specie grazie alle spesso inconsuete occupazioni) e soprattutto i famigerati scenari firmati da Frederik Berg Østergaard. In effetti, credo che la ricerca sui personaggi esili condotta in ambito jeep sia stata determinante per arrivare alla teoria del personaggio come alibi.
Tornando al caso specifico di Tu mi turbi, ritengo che anche qui l’esilità dei personaggi a fronte di tanta attenzione all’esperienza emotiva debba certamente indurre al bleed. Vi è “bleed in” allorché i giocatori completano i personaggi esili con ampie parti di sé stessi, e in particolare li investono della propria emotività, così da poter rispondere alla domanda implicita «che cosa sta provando il tuo personaggio?»: nella maggior parte dei casi, infatti, i giocatori non potranno far altro che domandarsi «che cosa proverei io nella stessa situazione?» e attribuire quell’emozione al personaggio. Ed è invece un caso di “bleed out” quando il giocatore arriva a provare veramente una determinata emozione per effetto del gioco (uno dei possibili trigger previsti per i contatori). Non penso vi siano dubbi: questo è un design incentrato sul bleed.
Tuttavia, non penso si possa dire che massimizzare il bleed a ogni costo è l’obiettivo degli autori, i quali invece mostrano di distinguere fra un bleed “virtuoso” o comunque desiderabile (necessario al funzionamento del gioco) e un bleed indesiderabile, dannoso. Il loro desiderio di prevenire quest’ultima forma di bleed si manifesta infatti con raccomandazioni sparse qua e là per il testo: si sconsiglia ai giocatori di chiamare i personaggi con nomi di conoscenti, si sconsiglia alle coppie di giocare lo scenario 1, si offre lo scenario 2 come alternativa “meno forte”. Si teme, insomma, che il gioco possa arrecare danni emotivi o sociali ai partecipanti, e si prendono alcune precauzioni per scongiurare questa eventualità (ciò non è affatto scontato, a proposito: potrei citare esempi di design in cui simili precauzioni mancano del tutto, e a volte deliberatamente).
Alla luce di tutto ciò, penso che potrebbe giovare agli obiettivi degli autori rendere i personaggi di Tu mi turbi un po’ meno esili, forse espandendo i questionari iniziali di ciascuno scenario. Apprezzerei particolarmente domande volte a stabilire aspetti della loro identità non correlati, o addirittura in apparente contrasto con la situazione relazionale che è il fulcro del gioco. Si potrebbero così andare a definire una “ampiezza” del personaggio e una sua distanza (critica) dal giocatore, triangolando uno “spazio di manovra” in cui il giocatore trovi la libertà di attribuire al personaggio emozioni distinte e diverse dalle proprie: un’operazione quest’ultima che partirebbe comunque dal sé, ma con un maggiore grado di rielaborazione rispetto all’immediatezza istintuale del bleed.

Il dramma di Gamma

Apprezzo molto il fatto che i tre personaggi siano distinti a livello di meccaniche; tuttavia, ho il timore che l’assetto attuale penalizzi il ruolo di Gamma, rendendolo il personaggio emotivamente più piatto fra i tre. Il giocatore Gamma chiude tutte le scene, inquadra le scene tra Alfa e Gamma ma appare anche in quelle inquadrate da Beta, non può esprimere ad alta voce l’interiorità del personaggio tranne quando avanza un contatore, mentre il giocatore Alfa può descrivere l’esteriorità del personaggio Gamma. Ciò implica che, nella fiction, Gamma si esprime rivolgendosi ad Alfa, ma che a un livello “meta” noi giocatori non saremo mai del tutto certi della sua sincerità. Sottolineo: nemmeno il giocatore di Gamma, a volte, perché nel gioco cosiddetto tabletop conta lo “spazio immaginato condiviso”, ovvero ciò che viene espresso; un pensiero che resti inespresso è sempre passibile di revisione.
Per questa ragione, incidentalmente, penso che i momenti “spotlight” di Gamma saranno generalmente quelli in cui maneggia i contatori, perché saranno gli unici in cui un personaggio la cui interiorità è altrimenti insondabile dichiara al pubblico qualcosa sulle proprie emozioni, e la rarità di questi momenti li investirà di importanza. Tuttavia, osservo anche che nello scenario 1 le due gamme di emozioni associate ai contatori per Gamma sono interamente rivolte alla sua percezione degli altri, o da parte degli altri, e dicono in fin dei conti molto poco sulla sua identità: il personaggio continua ad essere definito solo in quanto Amante di Alfa.
Il principale asse per sviluppare Gamma in ampiezza mi sembra essere il suo rapporto con Beta. Giustamente, le domande di setup dello scenario 1 accennano a una frequentazione preesistente tra Lei e L’Amante, e questo è un aspetto che raccomando di approfondire, perché più forte questo legame e più sfaccettato può risultare lo scenario (nello scenario 2, un rapporto tra l’Amico e il Nuovo Arrivo ha almeno la possibilità di emergere nel corso del gioco dalla reciproca, forzata frequentazione). È pur vero che il contatore comune a questi due giocatori, Sospetto, è associato a una gamma di emozioni esclusivamente negative; tuttavia, le meccaniche di gioco già prevedono la possibilità, eccezionalmente, di far retrocedere un contatore, e questo evento straordinario potrebbe bastare come espressione di un rapporto positivo o un atto di fiducia tra Beta e Gamma. Viceversa, se questi due personaggi non hanno alcun legame (se per esempio si conoscono “solo di vista”) ne risulta danneggiata la complessità di entrambi, in quanto le scene inquadrate da Beta con Gamma saranno o molto forzate, o focalizzate su una sorta di “indagine per scoprire il tradimento”; ma Beta avrebbe comunque altri spazi per esprimere e definire la propria identità, mentre quelli concessi a Gamma sono estremamente angusti.
Al confronto, Alfa è il personaggio con il maggior potenziale di espressione a tutto tondo: non solo condivide con Beta il potere di intervenire, in qualche modo, in tutte le scene, ma i due contatori con cui interagisce contengono entrambi una gamma complessa di emozioni positive, negative e ambigue, e in aggiunta può definire l’aspetto esteriore del personaggio Gamma come ulteriore canale di espressione di sé.
Mi sono domandato se l’onore o onere di tagliare le scene possa essere sfruttato dal giocatore Gamma, anche indirettamente, come forma espressiva, ma non riesco a darmi una risposta: è un caso un po’ troppo complesso, ammetto, per visualizzarmelo semplicemente nella testa. Quello che vedo, in compenso, è che essendo la conclusione di ciascuna scena già vincolata a due condizioni obbligatorie saranno abbastanza rari i casi in cui esercitare un arbitrio significativo nel tagliarle: in altre parole, ritengo che quello di chiudere la scena sarà la maggior parte delle volte un incarico pro-forma.
Il rischio che vedo, insomma, è che in molte partite quello di Gamma rimanga un ruolo di supporto: che sia relegato ad antagonista e non possa svilupparsi in un protagonista alla pari dello scenario. Credo, per di più, che questa eventualità renderebbe meno significativo anche il gioco degli altri due, perché nel momento in cui Beta dovesse emergere come un “protagonista” e Gamma essere percepito come un “antagonista” quella tra le due relazioni diventerebbe per il giocatore Alfa una scelta non paritaria, almeno a un livello inconscio: la sensibilità meta-testuale è decisamente forte in tutti noi, e influenza il nostro modo di giocare.

Questioni di genere

Per me il grande mistero di Tu mi turbi come testo, più che a livello di design, è perché negli scenari si abbandoni la forma “Alfa, Beta, Gamma” per attribuire ai personaggi (che, ricordiamolo, sono praticamente privi di qualsiasi altra definizione) dei generi fissi: lui, lei e l’amante (è la amante: nel testo le concordanze sono al femminile); l’amica, l’amico e il nuovo arrivato. Lo trovo… inutilmente limitante.
Mi sembra che lo scenario 1 non cambierebbe di una virgola se semplicemente invertissimo i generi dei personaggi per avere una “lei” indecisa tra due “lui”. Ma, aggiungo, il triangolo funzionerebbe allo stesso modo anche se avessimo lui, lei e lo amante (di lui), se avessimo tutti i personaggi dello stesso genere, o qualunque altra combinazione: le dinamiche del rapporto di coppia e quelle della seduzione prescindono dall’identità di genere e dall’orientamento sessuale degli individui. Perché, quindi, imporre una visione etero-normativa, sicuramente alienante per parecchi potenziali giocatori? Sarebbe sufficiente mantenere nel testo dello scenario le diciture Alfa, Beta e Gamma per lasciarlo aperto a tutte le variazioni, senza appunto la necessità di apportare altri cambiamenti. E c’è di più: penso che lasciare queste decisioni (sul genere dei personaggi e sull’orientamento della loro attrazione) ai giocatori stessi sia un modo di creare degli spazi di definizione dei personaggi, così che possano emergere più come persone e meno come stereotipi.
Per quanto riguarda lo scenario 2, non mi è assolutamente chiaro perché mai assegnare d’ufficio un genere ai personaggi, a meno che questa non sia una maniera di suggerire un sotto-testo di attrazione sessuale nella loro relazione. Ebbene, se così fosse sarebbe una maniera maldestramente etero-normativa di introdurre questa tensione; meglio sarebbe suggerirla attraverso la gamma di emozioni associate a ciascuno dei tre contatori e, ancora una volta, lasciare che il genere di ciascuno dei personaggi sia definito dal giocatore (eviterei invece di introdurre nello scenario domande relative all’orientamento sessuale e lascerei che l’attrazione, eventualmente, emergesse spontanea durante il gioco).

Sul buttarla in ridere

Un altro mio dubbio è che gli stereotipi di “un uomo come tanti”, ecc., come uniche indicazioni fisse di caratterizzazione, uniti al tema del “triangolo”, possano essere interpretati dai giocatori come licenza di buttare il gioco in farsa. Escludo che questa sia l’intenzione degli autori, se non altro perché il meccanismo centrale del “provare emozioni” mi pare incompatibile con un intento farsesco. Penso che situazioni da commedia siano accettabili in un gioco sull’emotività, ma solo a piccole dosi e finché si mantiene un certo garbo: oltrepassato un limite alquanto sottile, invece, la comicità diventa facile protagonista e marginalizza o distrugge l’aspetto emotivo.
Il rischio va tenuto presente, tuttavia, perché cercare rifugio nella risata è una delle reazioni più diffuse fra gli esseri umani (in quanto, in genere, socialmente approvata) allorché si sentono in imbarazzo, e l’imbarazzo è fra gli esiti più probabili di un gioco ad alto bleed. Alcuni “giochi” sono blindati contro questa eventualità dal loro stesso argomento, perché è chiaro a tutti fin dal titolo o dalla sinossi che non c’è proprio niente da ridere, e quindi si sale lo scalino dell’imbarazzo già nel momento stesso in cui si sceglie di partecipare (penso a Gang Rape di Tobias Wrigstad, A Flower for Mara di Seth Ben-Ezra, lo stesso Novanta minuti, ecc.); al contrario, Tu mi turbi tratta di triangoli, spesso amorosi, vale a dire di uno dei temi tradizionalmente prediletti dalla commedia.
Ancora una volta, penso che una possibile soluzione possa passare per una maggior caratterizzazione dei personaggi, perché la farsa vive di stereotipi: più i personaggi sono tridimensionali, più anche i giocatori timidi saranno delicatamente ricondotti quantomeno sui binari di una commedia romantica garbata che lasci spazio ai sentimenti umani.

In conclusione

Avvicinandomi alla fine di questa lunga recensione, vorrei spendere qualche parola di lode per le note che (a pag. 13) gli autori di Tu mi turbi dedicano all’accessibilità del gioco e del documento. In particolare, sono i dettagli relativi alla leggibilità da parte di utenti dislessici e all’indice di complessità del linguaggio usato che mi colpiscono per essere evidentemente il frutto di una ricerca attenta o di una passione personale, e la breve bibliografia che si propone a riguardo rappresenta uno strumento di immediata utilizzabilità per altri game designer: sicuramente me ne servirò in futuro, e quindi ringrazio Manuela e Mattia per queste dritte.
Sempre nella postfazione, infine, gli autori ipotizzano un’edizione “in scatola” e in questo espediente vedono la possibilità di proporre una futura versione di Tu mi turbi a (parole loro) “non giocatori”, ovvero “un pubblico generalista”. Su questo punto penso di poter dare qualche consiglio, spero utile.
Il problema nell’avvicinare un pubblico non già assuefatto ai giochi di ruolo non si limita, secondo me, alla visibilità del prodotto-gioco (cosa in cui può aiutare una scatola), ma è soprattutto il problema di comunicare o insegnare la pratica di gioco: non tanto a livello di quali siano le pratiche “più corrette”, ma per ciò che riguarda le vere e proprie azioni di base. L’ipotetica edizione “in scatola” destinata ai “non giocatori”, quindi, dovrebbe insegnare strumenti che fra gli habitué si danno per scontati: come impostare le scene, quando parlare “in character” e quando “out of character”, e così via; cose che la maggior parte di noi hanno appreso per tradizione orale, non da un testo. Un manuale che spieghi questi concetti, tuttavia, non sarebbe la risposta giusta: l’esperienza dei board-game e quella dei videogiochi insegnano che per allargare il pubblico potenziale il manuale (inteso come testo da leggere prima di giocare) deve sparire, o almeno ridursi a non più di una pagina; le componenti debbono farsi auto-esplicative, o almeno portatrici di spiegazione, oppure il gioco deve contenere in sé il proprio “tutorial” (e, perfino così, i giochi in scatola si tramandano più spesso per insegnamento orale ed esempio che non per lettura dei pur scarni foglietti d’istruzioni).
Come rendere auto-esplicativo un gioco di ruolo è, a parer mio, la maggior sfida che un designer interessato al gdr come prodotto deve oggi affrontare (l’alternativa, in qualche modo già in atto, è solo la marginalizzazione o la completa rinuncia, accompagnata dalla ricerca di altri modelli di commercializzazione: per esempio, il gioco di ruolo come evento). Vedremo, quindi, che parte farà Tu mi turbi nella ricerca di nuove soluzioni.