Tu mi turbi è visibilmente figlio della stessa “scuola” di design da cui proviene
Novanta minuti di Matteo Turini, gioco vincitore del Game Chef 2012: tratta di conflitti emotivamente molto intensi che potrebbero verificarsi nella vita quotidiana di chiunque, con una propensione verso le emozioni negative e senza il filtro del fantastico (mi è capitato di sentire dei detrattori etichettare questo “genere”, impropriamente, come “
kitchen sink realism”); utilizza una meccanica a punti per determinare il finale del gioco in maniera parzialmente indipendente dalla volontà dei giocatori (una consuetudine di design che discende da
La mia vita col padrone di Paul Czege) e assegna questi punti come conseguenza del comportamento dei giocatori durante il cosiddetto “gioco libero” (idea che ha un precedente e forse la sua origine in
Bliss Stage di Ben Lehman). Il retroterra è evidentemente l’incontro tra i figli di The Forge e la scena freeform scandinava (il collettivo
Vi åker jeep, la convention danese
Fastaval, ecc.), quest’ultima divulgata in Italia dalle edizioni “in scatola” di alcuni celebri scenari uscite sotto etichetta Narrattiva; ma solo il tempo potrà dirci se questo fermento rimarrà solo una nota a margine di una nota a margine (l’infatuazione di alcuni game designer della East Coast statunitense per gli ambienti di Fastaval e
Knutepunkt) o se rappresenterà l’inizio di una vera e propria nuova “scuola” di design in lingua italiana.
Nel complesso, il mio giudizio su
Tu mi turbi è decisamente positivo. L’elaborato che mi è stato chiesto di recensire è professionale sia nella forma, sia nei contenuti, specie a fronte degli stretti limiti di tempo, e spicca anche in una competizione il cui livello medio di qualità è, mi pare, assai elevato. Questo e non altro è il motivo per cui, nelle righe che seguiranno, mi concentrerò soprattutto sui difetti, o più precisamente su quelli che individuo come i potenziali difetti del gioco. Farò questo nella speranza che le mie critiche siano utili agli autori in vista delle prossime fasi di sviluppo del prodotto, che non dubito potrà alla fine risultare assai pregevole.
Mi scuso se questa non è e non ha potuto essere una recensione basata su una prova pratica. I dubbi e le obiezioni che sollevo nascono quindi dalla mia esperienza generale e di altri giochi in qualche modo affini (fra cui buona parte di quelli che gli autori elencano come fonti d’ispirazione). Ben venga, dunque, se le mie perplessità dovessero un giorno essere messe a tacere dai fatti, come del resto spesso accade.
Designed for bleed?
La più fondamentale delle mie perplessità si articola in due parti: riguarda il provare emozioni come trigger meccanico e la maniera in cui ciò interagisce con l’esilità dei personaggi.
Cercherò di spiegarmi meglio… La meccanica centrale di
Tu mi turbi è che quando uno dei giocatori ritiene di stare provando un’emozione da una certa gamma, o ritiene che il proprio personaggio starebbe provando una di quelle emozioni, interviene ad avanzare di un punto uno dei tre contatori. La principale differenza rispetto a meccanismi simili esistenti in altri giochi (il summenzionato
Bliss Stage,
S/lay w/Me di Ron Edwards, ecc.) è che di solito a fungere da
trigger sono degli eventi immaginati estrinseci, tali che ogni giocatore al tavolo è nella posizione di identificarli quando si verificano, mentre in questo caso sono (prevalentemente) dei moti interiori, cosicché ciascuno è arbitro unico dei propri. Oppure, se prendiamo la scelta se attribuire un punto d’Amore o Pietà in
Kagematsu di Danielle Lewon, che è quanto di più simile mi venga in mente a livello di sottigliezza, essa è appunto una scelta che si svolge relativamente a freddo, in un interludio tra scena e scena, consentendo alla giocatrice di concentrarsi esclusivamente su questo giudizio; in
Tu mi turbi, invece, i giocatori sono chiamati a esprimere giudizi del genere a scena aperta.
Inoltre, l’uso del meccanismo
deve obbligatoriamente avvenire una volta per scena: finché un giocatore non interviene sui contatori, la scena non può chiudersi. Ciò a mio avviso mette i giocatori sotto una certa pressione esplicita di “dover provare” quelle emozioni; o, meglio, di riuscire a individuarle nella fiction, direttamente o indirettamente. Sebbene (fatto molto positivo) ciascun giocatore abbia una scelta fra due sole possibilità, la gamma di emozioni che un dato scenario associa a ciascun contatore è pur sempre ampia e complessa abbastanza da non poter escludere del tutto l’insorgere di dubbi: «Sto soddisfacendo una sua esigenza, o mi sta solo usando?», potrebbe per esempio domandarsi il giocatore dell’Amante nel primo scenario, chiedendosi di conseguenza se avanzare uno dei suoi due contatori e quale.
La prima componente della mia perplessità, quindi, è il timore che i giocatori si trovino a dover dedicare un’eccessiva quantità di attenzione a “monitorarsi” mentre giocano, a chiedersi quali emozioni stanno provando, invece di “giocare e basta”. Questo costante obbligo di auto-consapevolezza non rischierà di trasformarsi in un’inibizione? Un espediente per aggirare in parte il problema è forse il concentrarsi sulle esplicite esternazioni di sentimento, che due partecipanti su tre possono articolare anche mediante “monologo interiore” e commenti che “appartengono” al personaggio anche quando provenienti da fuori scena; ma qui appunto emerge l’altro mio fattore di perplessità: i personaggi esili.
Nello scenario 1, “Lui” è “un uomo come tanti”, “Lei” è “una donna come tante”; nello scenario 2 abbiamo “una ragazza come tante” e “un ragazzo come tanti”. Si invitano i giocatori a definire liberamente i loro personaggi e la situazione in cui si muovono, ma le domande-guida proposte in ciascuno scenario sono volte esclusivamente a specificare i particolari della loro relazione a triangolo. Il rischio è che, nove volte su dieci, si cominci a giocare con personaggi che non sono definiti da altro che dalla relazione in cui sono coinvolti e da un vago stereotipo legato al genere (ma su questo punto tornerò dopo): questo è ciò che definisco un personaggio “esile”, cioè poco articolato a livello di design, privo di uno “spessore” che lo faccia emergere come una personalità “a tutto tondo” ben distinta da quella del giocatore.
Non vi è nulla di intrinsecamente “sbagliato” nell’usare personaggi esili, beninteso. È una scelta di design spesso usata con la finalità precisa di accorciare la distanza tra personaggio e giocatore, tipicamente allo scopo di massimizzare il
bleed: esempi eccellenti di questa pratica si riscontrano nei Jeepform, compreso il “canonico”
Dubbio (in cui però, a parer mio, i personaggi tendono comunque a uno spessore leggermente maggiore, specie grazie alle spesso inconsuete occupazioni) e soprattutto i famigerati scenari firmati da Frederik Berg Østergaard. In effetti, credo che la ricerca sui personaggi esili condotta in ambito jeep sia stata determinante per arrivare alla teoria del
personaggio come alibi.
Tornando al caso specifico di
Tu mi turbi, ritengo che anche qui l’esilità dei personaggi a fronte di tanta attenzione all’esperienza emotiva debba certamente indurre al bleed. Vi è “bleed in” allorché i giocatori completano i personaggi esili con ampie parti di sé stessi, e in particolare li investono della propria emotività, così da poter rispondere alla domanda implicita «che cosa sta provando il tuo personaggio?»: nella maggior parte dei casi, infatti, i giocatori non potranno far altro che domandarsi «che cosa proverei io nella stessa situazione?» e attribuire quell’emozione al personaggio. Ed è invece un caso di “bleed out” quando il giocatore arriva a provare veramente una determinata emozione per effetto del gioco (uno dei possibili trigger previsti per i contatori). Non penso vi siano dubbi: questo è un design incentrato sul bleed.
Tuttavia, non penso si possa dire che
massimizzare il bleed a ogni costo è l’obiettivo degli autori, i quali invece mostrano di distinguere fra un bleed “virtuoso” o comunque desiderabile (necessario al funzionamento del gioco) e un bleed indesiderabile, dannoso. Il loro desiderio di prevenire quest’ultima forma di bleed si manifesta infatti con raccomandazioni sparse qua e là per il testo: si sconsiglia ai giocatori di chiamare i personaggi con nomi di conoscenti, si sconsiglia alle coppie di giocare lo scenario 1, si offre lo scenario 2 come alternativa “meno forte”. Si teme, insomma, che il gioco possa arrecare danni emotivi o sociali ai partecipanti, e si prendono alcune precauzioni per scongiurare questa eventualità (ciò non è affatto scontato, a proposito: potrei citare esempi di design in cui simili precauzioni mancano del tutto, e a volte
deliberatamente).
Alla luce di tutto ciò, penso che potrebbe giovare agli obiettivi degli autori rendere i personaggi di
Tu mi turbi un po’ meno esili, forse espandendo i questionari iniziali di ciascuno scenario. Apprezzerei particolarmente domande volte a stabilire aspetti della loro identità non correlati, o addirittura in apparente contrasto con la situazione relazionale che è il fulcro del gioco. Si potrebbero così andare a definire una “ampiezza” del personaggio e una sua distanza (critica) dal giocatore, triangolando uno “spazio di manovra” in cui il giocatore trovi la libertà di attribuire al personaggio emozioni distinte e diverse dalle proprie: un’operazione quest’ultima che partirebbe comunque dal sé, ma con un maggiore grado di rielaborazione rispetto all’immediatezza istintuale del bleed.
Il dramma di Gamma
Apprezzo molto il fatto che i tre personaggi siano distinti a livello di meccaniche; tuttavia, ho il timore che l’assetto attuale penalizzi il ruolo di Gamma, rendendolo il personaggio emotivamente più piatto fra i tre. Il giocatore Gamma chiude tutte le scene, inquadra le scene tra Alfa e Gamma ma appare anche in quelle inquadrate da Beta, non può esprimere ad alta voce l’interiorità del personaggio tranne quando avanza un contatore, mentre il giocatore Alfa può descrivere l’esteriorità del personaggio Gamma. Ciò implica che, nella fiction, Gamma si esprime rivolgendosi ad Alfa, ma che a un livello “meta” noi giocatori non saremo mai del tutto certi della sua sincerità. Sottolineo:
nemmeno il giocatore di Gamma, a volte, perché nel gioco cosiddetto tabletop conta lo “spazio immaginato condiviso”, ovvero ciò che viene
espresso; un pensiero che resti inespresso è sempre passibile di revisione.
Per questa ragione, incidentalmente, penso che i momenti “spotlight” di Gamma saranno generalmente quelli in cui maneggia i contatori, perché saranno gli unici in cui un personaggio la cui interiorità è altrimenti insondabile dichiara al pubblico qualcosa sulle proprie emozioni, e la rarità di questi momenti li investirà di importanza. Tuttavia, osservo anche che nello scenario 1 le due gamme di emozioni associate ai contatori per Gamma sono
interamente rivolte alla sua percezione degli altri, o da parte degli altri, e dicono in fin dei conti molto poco sulla sua identità: il personaggio continua ad essere definito solo in quanto Amante di Alfa.
Il principale asse per sviluppare Gamma in ampiezza mi sembra essere il suo rapporto con Beta. Giustamente, le domande di setup dello scenario 1 accennano a una frequentazione preesistente tra Lei e L’Amante, e questo è un aspetto che raccomando di approfondire, perché più forte questo legame e più sfaccettato può risultare lo scenario (nello scenario 2, un rapporto tra l’Amico e il Nuovo Arrivo ha almeno la possibilità di emergere nel corso del gioco dalla reciproca, forzata frequentazione). È pur vero che il contatore comune a questi due giocatori, Sospetto, è associato a una gamma di emozioni
esclusivamente negative; tuttavia, le meccaniche di gioco già prevedono la possibilità, eccezionalmente, di
far retrocedere un contatore, e questo evento straordinario potrebbe bastare come espressione di un rapporto positivo o un atto di fiducia tra Beta e Gamma. Viceversa, se questi due personaggi non hanno alcun legame (se per esempio si conoscono “solo di vista”) ne risulta danneggiata la complessità di entrambi, in quanto le scene inquadrate da Beta con Gamma saranno o molto forzate, o focalizzate su una sorta di “indagine per scoprire il tradimento”; ma Beta avrebbe comunque altri spazi per esprimere e definire la propria identità, mentre quelli concessi a Gamma sono estremamente angusti.
Al confronto, Alfa è il personaggio con il maggior potenziale di espressione a tutto tondo: non solo condivide con Beta il potere di intervenire, in qualche modo, in tutte le scene, ma i due contatori con cui interagisce contengono entrambi una gamma complessa di emozioni positive, negative e ambigue, e in aggiunta può definire l’aspetto esteriore del personaggio Gamma come ulteriore canale di espressione di sé.
Mi sono domandato se l’onore o onere di tagliare le scene possa essere sfruttato dal giocatore Gamma, anche indirettamente, come forma espressiva, ma non riesco a darmi una risposta: è un caso un po’ troppo complesso, ammetto, per visualizzarmelo semplicemente nella testa. Quello che vedo, in compenso, è che essendo la conclusione di ciascuna scena già vincolata a due condizioni obbligatorie saranno abbastanza rari i casi in cui esercitare un arbitrio significativo nel tagliarle: in altre parole, ritengo che quello di chiudere la scena sarà la maggior parte delle volte un incarico pro-forma.
Il rischio che vedo, insomma, è che in molte partite quello di Gamma rimanga un ruolo di supporto: che sia relegato ad antagonista e non possa svilupparsi in un protagonista alla pari dello scenario. Credo, per di più, che questa eventualità renderebbe meno significativo anche il gioco degli altri due, perché nel momento in cui Beta dovesse emergere come un “protagonista” e Gamma essere percepito come un “antagonista” quella tra le due relazioni diventerebbe per il giocatore Alfa una scelta non paritaria, almeno a un livello inconscio: la sensibilità meta-testuale è decisamente forte in tutti noi, e influenza il nostro modo di giocare.
Questioni di genere
Per me il grande mistero di
Tu mi turbi come testo, più che a livello di design, è perché negli scenari si abbandoni la forma “Alfa, Beta, Gamma” per attribuire ai personaggi (che, ricordiamolo, sono praticamente privi di qualsiasi altra definizione) dei generi fissi: lui, lei e l’amante (è
la amante: nel testo le concordanze sono al femminile); l’amica, l’amico e il nuovo arrivato. Lo trovo… inutilmente limitante.
Mi sembra che lo scenario 1 non cambierebbe di una virgola se semplicemente invertissimo i generi dei personaggi per avere una “lei” indecisa tra due “lui”. Ma, aggiungo, il triangolo funzionerebbe allo stesso modo anche se avessimo lui, lei e
lo amante (di lui), se avessimo tutti i personaggi dello stesso genere, o qualunque altra combinazione: le dinamiche del rapporto di coppia e quelle della seduzione prescindono dall’identità di genere e dall’orientamento sessuale degli individui. Perché, quindi, imporre una visione etero-normativa, sicuramente alienante per parecchi potenziali giocatori? Sarebbe sufficiente mantenere nel testo dello scenario le diciture Alfa, Beta e Gamma per lasciarlo aperto a tutte le variazioni, senza appunto la necessità di apportare altri cambiamenti. E c’è di più: penso che lasciare queste decisioni (sul genere dei personaggi e sull’orientamento della loro attrazione) ai giocatori stessi sia un modo di creare degli spazi di definizione dei personaggi, così che possano emergere più come persone e meno come stereotipi.
Per quanto riguarda lo scenario 2, non mi è assolutamente chiaro perché mai assegnare d’ufficio un genere ai personaggi, a meno che questa non sia una maniera di suggerire un sotto-testo di attrazione sessuale nella loro relazione. Ebbene, se così fosse sarebbe una maniera maldestramente etero-normativa di introdurre questa tensione; meglio sarebbe suggerirla attraverso la gamma di emozioni associate a ciascuno dei tre contatori e, ancora una volta, lasciare che il genere di ciascuno dei personaggi sia definito dal giocatore (eviterei invece di introdurre nello scenario domande relative all’orientamento sessuale e lascerei che l’attrazione, eventualmente, emergesse spontanea durante il gioco).
Sul buttarla in ridere
Un altro mio dubbio è che gli stereotipi di “un uomo come tanti”, ecc., come uniche indicazioni fisse di caratterizzazione, uniti al tema del “triangolo”, possano essere interpretati dai giocatori come licenza di buttare il gioco in farsa. Escludo che questa sia l’intenzione degli autori, se non altro perché il meccanismo centrale del “provare emozioni” mi pare incompatibile con un intento farsesco. Penso che situazioni da commedia siano accettabili in un gioco sull’emotività, ma solo a piccole dosi e finché si mantiene un certo garbo: oltrepassato un limite alquanto sottile, invece, la comicità diventa facile protagonista e marginalizza o distrugge l’aspetto emotivo.
Il rischio va tenuto presente, tuttavia, perché cercare rifugio nella risata è una delle reazioni più diffuse fra gli esseri umani (in quanto, in genere, socialmente approvata) allorché si sentono in imbarazzo, e l’imbarazzo è fra gli esiti più probabili di un gioco ad alto bleed. Alcuni “giochi” sono blindati contro questa eventualità dal loro stesso argomento, perché è chiaro a tutti fin dal titolo o dalla sinossi che non c’è proprio niente da ridere, e quindi si sale lo scalino dell’imbarazzo già nel momento stesso in cui si sceglie di partecipare (penso a
Gang Rape di Tobias Wrigstad,
A Flower for Mara di Seth Ben-Ezra, lo stesso
Novanta minuti, ecc.); al contrario,
Tu mi turbi tratta di triangoli, spesso amorosi, vale a dire di uno dei temi tradizionalmente prediletti dalla commedia.
Ancora una volta, penso che una possibile soluzione possa passare per una maggior caratterizzazione dei personaggi, perché la farsa vive di stereotipi: più i personaggi sono tridimensionali, più anche i giocatori timidi saranno delicatamente ricondotti quantomeno sui binari di una commedia romantica garbata che lasci spazio ai sentimenti umani.
In conclusione
Avvicinandomi alla fine di questa lunga recensione, vorrei spendere qualche parola di lode per le note che (a pag. 13) gli autori di
Tu mi turbi dedicano all’accessibilità del gioco e del documento. In particolare, sono i dettagli relativi alla leggibilità da parte di utenti dislessici e all’indice di complessità del linguaggio usato che mi colpiscono per essere evidentemente il frutto di una ricerca attenta o di una passione personale, e la breve bibliografia che si propone a riguardo rappresenta uno strumento di immediata utilizzabilità per altri game designer: sicuramente me ne servirò in futuro, e quindi ringrazio Manuela e Mattia per queste dritte.
Sempre nella postfazione, infine, gli autori ipotizzano un’edizione “in scatola” e in questo espediente vedono la possibilità di proporre una futura versione di
Tu mi turbi a (parole loro) “non giocatori”, ovvero “un pubblico generalista”. Su questo punto penso di poter dare qualche consiglio, spero utile.
Il problema nell’avvicinare un pubblico non già assuefatto ai giochi di ruolo non si limita, secondo me, alla visibilità del prodotto-gioco (cosa in cui può aiutare una scatola), ma è soprattutto il problema di
comunicare o insegnare la pratica di gioco: non tanto a livello di quali siano le pratiche “più corrette”, ma per ciò che riguarda le vere e proprie azioni di base. L’ipotetica edizione “in scatola” destinata ai “non giocatori”, quindi, dovrebbe insegnare strumenti che fra gli habitué si danno per scontati: come impostare le scene, quando parlare “in character” e quando “out of character”, e così via; cose che la maggior parte di noi hanno appreso per tradizione orale, non da un testo. Un manuale che spieghi questi concetti, tuttavia, non sarebbe la risposta giusta: l’esperienza dei board-game e quella dei videogiochi insegnano che per allargare il pubblico potenziale il manuale (inteso come testo da leggere prima di giocare) deve sparire, o almeno ridursi a non più di una pagina; le componenti debbono farsi auto-esplicative, o almeno portatrici di spiegazione, oppure il gioco deve contenere in sé il proprio “tutorial” (e, perfino così, i giochi in scatola si tramandano più spesso per insegnamento orale ed esempio che non per lettura dei pur scarni foglietti d’istruzioni).
Come rendere auto-esplicativo un gioco di ruolo è, a parer mio, la maggior sfida che un designer interessato al
gdr come prodotto deve oggi affrontare (l’alternativa, in qualche modo già in atto, è solo la marginalizzazione o la completa rinuncia, accompagnata dalla ricerca di altri modelli di commercializzazione: per esempio, il gioco di ruolo come
evento). Vedremo, quindi, che parte farà
Tu mi turbi nella ricerca di nuove soluzioni.