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Saturday, June 7, 2014

[Commenti Game Chef] La Città di Giuda, di Daimon Games


Sono in ritardo nel mettere per iscritto le recensioni, ma non nel farmi un’opinione sui giochi. Per il ciclo “valutazioni del Game Chef 2014 italiano” proseguo con “La Città di Giuda”, di uno o più autori che si presentano sotto lo pseudonimo “Daimon Games”. Dai dati di contatto posso desumere nome e cognome di una persona che, peraltro, conoscevo solo di nome, ma per il resto questo è il mio primo incontro con DaimonGames: in un secondo tempo probabilmente scaricherò e leggerò i vari giochi proposti sul suo/loro sito.

Presentazione

“La Città di Giuda” è un gioco di ruolo di impostazione alquanto tradizionale, incentrato sulle violente e pericolose avventure di un manipolo di mercenari affiliati all’organizzazione paramilitare del Pugno di Ferro, ambientato in una versione fantasy dei regni crociati nel Levante medievale. I meccanismi e gran parte della struttura sono una modificazione di quelli di Apocalypse World (l’omaggio è evidente, seppur non esplicitamente dichiarato).
Il tutto è presentato come due fogli fronte-e-retro competentemente impaginati: una scheda del personaggio che riporta sul retro le regole per il giocatore e un secondo foglio che descrive l’ambientazione e presenta le istruzioni per “il Master”. Con ciò sembra inquadrarsi nel filone di quei “micro-giochi”, come Lasers & Feelings oppure Ghost Lines di John Harper o Cthulhu Dark di Graham Walmsley, che attraverso rimandi ad una consolidata tradizione orale cercano di presentare un “manuale” quanto più completo possibile nel minimo dello spazio (e in ciò non sono da confondere con altri “micro-giochi” in cui l’esposizione incompleta è considerata parte del design, come Ghost/Echo sempre di Harper, o in cui è il focus molto definito a consentire la brevità di esposizione, come What is a Role-playing Game? di Epidiah Ravachol). L’impatto visivo è gradevole sullo schermo, ma, poiché i due fogli sono chiaramente destinati ad essere stampati, temo che la scelta del testo bianco su fondo nero non sia stata lungimirante.

Un’impostazione tradizionale

Quando parlo di impostazione “tradizionale” mi riferisco principalmente al gruppo di personaggi alleati fra loro, ciascuno di proprietà di un singolo giocatore, che affrontano una sequenza di “avventure” dal contenuto spesso violento. Aspetti tecnici generalmente collegati alla medesima tradizione, e presenti infatti anche ne La Città di Giuda, sono il ruolo del “game master” che ha il controllo assoluto su tutti i personaggi secondari, gli sfondi, i retroscena, ecc. e gioca anche un ruolo chiave di “arbitro” nelle meccaniche di risoluzione, e la prospettiva di giocare sessioni multiple con i medesimi personaggi, senza un’indicazione a priori di quando il gioco debba concludersi.
“Tradizionale”, per definizione, significa solido, perché ben collaudato; significa anche individuare un implicito target del gioco in coloro che in quella tradizione si riconoscono. Non sono estraneo a questa tradizione: è l’ambiente da cui provengo, e in essa mi sono riconosciuto per molti anni. Ragion per cui mi sento in grado di giudicare gli aspetti più tecnici de La Città di Giuda tenendo conto della fascia di pubblico a cui mi sembra essere rivolto.
L’aderenza ad una tradizione, beninteso, può portarsi appresso anche dei vizi radicati. Nel caso de La Città di Giuda, per esempio, mi colpisce negativamente il ricorrere di espressioni quali “a insindacabile giudizio del Master”… Perché mai occorre specificare “insindacabile”? Se si “spreca” una parola per questo, quando lo spazio sulla pagina è tanto tiranno, secondo me significa che ci si aspetta (come un fatto del tutto normale) una situazione di conflittualità fra i giocatori al tavolo. Personalmente io non credo (non più) che si possa pretendere di giocare in una situazione in cui un giocatore contesta le decisioni di un altro: in un ambiente di gioco “sano”, a mio avviso, tutte le decisioni sono appellabili, ma nessuna viene mai contestata in modo capzioso, perché sussiste una solida unanimità di intenti (senza la quale il gioco di ruolo sarebbe una fatica invece che un piacere).
Ho l’impressione che, come testo, La Città di Giuda sia diviso tra due “anime” che cercano di trascinarlo in direzioni diverse: l’esempio di Apocalypse World e le aspettative della tradizione.

La meridiana delle azioni

La “meridiana delle azioni” costituisce la più appariscente variazione rispetto alle meccaniche di base di Apocalypse World. Si tratta comunque di un metodo per risolvere o indirizzare un conflitto determinando in quale di tre “fasce” (dalla più favorevole alla meno favorevole al personaggio del giocatore che tira i dadi) si collocheranno le conseguenze di una mossa, ma il funzionamento della meridiana promette maggiore character-effectiveness (probabilità che il personaggio “abbia successo”) a quei giocatori che manifestano maggior varietà di modi d’agire.
Una possibile applicazione è in un contesto, come l’ho definito, pienamente “tradizionale” e per certi versi conflittuale, in cui il “successo” nell’azione è ambito, mentre la varietà di descrizione è vissuta come una “fatica” e i giocatori tendono quindi a ripetere sempre le stesse frasi formulaiche. In tal caso, la struttura della meridiana è un incentivo (sicuramente migliore di un “bonus all’interpretazione”) ad escogitare qualcosa di sempre diverso, adeguandosi alle restrizioni che l’attuale posizione sulla meridiana impone. Alla lunga, però, poiché il difetto nel caso in esame sta nella discrepanza di obiettivi estetici fra i giocatori, un meccanismo di gioco non potrà risolverlo davvero e si ricadrà, semplicemente, in un formulario più ampio.
Le modalità d’azione scritte sulle “ore” della meridiana sono dei descrittori vaghi che ricordano “caratteristiche” del personaggio in giochi di ruolo che definirei di formulazione superata: attingono alla visione stereotipata di una persona fratturata in qualità quantificabili, per cui “agire con intelligenza” è cosa distinta dall’agire “con coraggio”… Tuttavia, la rotazione sulla meridiana è comunque un passo avanti evolutivo rispetto ai sistemi di gioco in cui queste qualità erano fissate alla creazione del personaggio, così che il personaggio di un giocatore era premiato se agiva sempre e solo “con intelligenza” e un altro sempre e solo “con coraggio”. Ma le vere potenzialità latenti di un meccanismo come questo sono ben altre, ancora poco sfruttate ne La Città di Giuda…
Una delle modalità d’azione, infatti, è diversa dalle altre: “stregoneria” (sul numero 9). La mia interpretazione è che usare “stregoneria” come modalità d’azione costi sempre e comunque un punto di Dannazione (un prezzo salato). Ed ecco ciò che secondo me è cruciale: le modalità indicate sulla meridiana sono il corrispettivo delle “mosse base” di AW. La scelta autoriale di cosa scrivere in corrispondenza dei vari numeri indirizza e confina le azioni dei personaggi entro limiti che definiscono il “mondo” del gioco, e può anche forzare i giocatori verso scelte importanti e difficili. Questo è un potenziale che mi piacerebbe vedere più consapevolmente utilizzato.
Per prima cosa, però, sarebbe urgente trovare un linguaggio per indicare *quando* fare ricorso alla meridiana. Al momento il testo dice: “Tutte le azioni, compreso colpire un nemico, ucciderlo o metterlo fuori combattimento, vengono eseguite sulla Meridiana”; e “Quando un personaggio compie un’azione, come prima cosa deve dichiarare cosa intende fare e come farlo, scegliendo il valore appropriato sulla Meridiana delle azioni.” La scelta di parole, secondo me, è infelice. Intendere “tutte le azioni” alla lettera sarebbe semplicemente inapplicabile, il che fa di “azione” un termine estremamente ambiguo: io sceglierei di leggerlo come “conflitti”, ma potrebbe parimenti essere inteso come “quando lo dice il master”. In definitiva, davanti a un testo del genere ogni tavolo deve trovare da sé il proprio standard.

Fasi lunari, missioni e preparazione

Anche per quanto riguarda il contenuto delle sessioni ciascun tavolo è lasciato a decidere da sé il proprio standard, e questo rappresenta una lacuna importante. Di momento in momento, il master ha degli obiettivi da porsi (“Dipingi uno scenario fantastico, ma usa il sovrannaturale con parsimonia. Trasmetti un senso di mistero e minaccia.” ), più che avere dei principi cui attenersi per raggiungerli. Più in generale, mi sembra che i tre livelli di “agenda” (obiettivi), “principles” (principi) e mosse dell’MC, propri di Apocalypse World, siano stati a volte rimescolati fra loro nei paragrafi “Scenario”, “Le tue armi” e “I tuoi colpi”: enunciazioni di principio come “Tutti hanno un prezzo” e “Usa il pugno di ferro nel guanto di ferro” non sono ben raggruppate con mosse quali “Inducili in tentazione ” e forse dovrebbero invece trovarsi a un livello intermedio con altri buoni principi come “Sii pronto a cambiare idea e a essere sorpreso. ”
Bello il “calendario lunare”, controparte della meridiana, su cui determinare casualmente per ciascuna sessione di gioco l’influsso e la potenza delle forze del male. Trovo lo spunto affascinante, in particolare per l’esplicita rinuncia al controllo: immaginando me stesso come master del gioco, il lancio del dado per determinare la fase lunare avrebbe per me sia il piacevole valore psicologico di scaricare sul caso la responsabilità per la pericolosità dello scenario, sia il potente valore rituale di affermare il potere immaginario delle forze del male come qualcosa di superiore alla possibilità di controllo dei giocatori tutti, me compreso. Peccato invece che le fasi lunari, poi, si traducano meccanicamente solo in occasionali modificatori negativi sulla risoluzione delle azioni: una parte di me vorrebbe vedere qualcosa di più integrato, le due “ruote” girare insieme come un unico meccanismo. In alternativa, preferirei che la fase della luna non toccasse mai direttamente il meccanismo di risoluzione, ma che invece si riflettesse esclusivamente sul contenuto degli scenari.
Il Pugno di Ferro, di cui i PG per definizione fanno parte, è un’organizzazione studiata apposta per non avere mai problemi di “adventure hook”: al contempo mercenari ai limiti della legalità, ma obbedienti a una gerarchia (“Il prezzo viene concordato con gli ufficiali del Pugno di Ferro e non con i personaggi”) e ammantati dell’aura di un ordine militante che combatte i demoni. Questa caratterizzazione consente al master di mettere i personaggi dei giocatori di fronte a un incarico, qualunque esso sia, perché tali sono gli ordini, applicando la motivazione della lealtà militare anche a missioni che di militare non abbiano nulla. È una soluzione intelligente alle problematiche tradizionalmente associate con il “gruppo di avventurieri”.
Ma rimango con la domanda: queste missioni vanno in qualche modo “preparate”? L’accenno a ricerche “sul web” di “mostri mitologici” mi fa pensare a un master che, qualche tempo prima della sessione, prepara in solitudine degli appunti, con una “missione” che poi assegna ai PG attraverso la gerarchia del Pugno di Ferro. Ma allora, come si preparano? Senza indicazioni su quanto e cosa decidere, scrivere, senza una scaletta, una procedura, resta in bianco una parte centrale del game design, rimettendosi in pratica (come per l’indicazione di quando ricorrere ai dadi) alle tradizioni di gioco già esistenti.
Se è prevista preparazione, oltretutto, questa come si concilia con il calendario lunare? Dovrei tirare il dado per stabilire la fase lunare in anticipo (diciamo, alla fine della sessione precedente) e di conseguenza preparare uno scenario adatto alla fase lunare che verrà (un problema puramente umano, senza interferenza delle forze del male, se è il plenilunio; un diretto attacco demoniaco nel mondo terreno al novilunio)? Oppure dovrei escogitare uno scenario “agnostico” rispetto alla fase lunare, e solo all’inizio della sessione tirare il dado? In quest’ultimo caso, dovrei preparare uno scheletro di scenario che, a seconda della fase lunare, andrà cambiato in corsa in modi specifici. Entrambe le prospettive sono intriganti, ed è anche per questo che mi piacerebbe conoscere la metodologia impiegata dall’autore o dagli autori al loro tavolo, e vederla sintetizzata nei fogli di regole.
Se, viceversa, ci si aspetta che il contenuto del gioco sia interamente improvvisato senza preparazione, allora alle fasi lunari potrebbero corrispondere delle linee guida, dei semi o degli spunti. Forse anche sezioni differenziate nella lista delle mosse del GM, “colpi” speciali disponibili solo sotto una certa luna? Sarebbe anche molto utile avere un punto di partenza: delle linee guida per la prima sessione, per come usarla per dare il via al gioco e improvvisare di conseguenza gli scenari delle sessioni successive. Magari perfino una “prima missione” prefissata, un punto di partenza fisso per tutti i gruppi di gioco, con linee guida su dove la “storia” creata insieme possa poi dirigersi a seconda delle prime scelte fatte dai giocatori.

De brevitate

A molte delle critiche che ho fin qui formulato in questa recensione, evidenziando lacune nel design, si potrebbe tentare di replicare che sono vuoti di esposizione dovuti all’esiguità del testo. Senza dubbio La Città di Giuda si presenta come un “libro” molto piccolo; e invero questo è un gran pregio, perché all’atto pratico i libri vanno letti, ricordati e continuamente consultati come riferimento e tutte queste operazioni diventano più lente e difficili quanto più grande ne è la mole. Tuttavia, a seconda di come si ottimizza la presentazione delle informazioni, lo spazio di quattro pagine può contenerne da poche a moltissime: da questo punto di vista, c’è margine per migliorare, tagliando delle ridondanze e ricavando così lo spazio per comunicare ciò che manca.
La prima facciata occupata da una “scheda del personaggio” è, allo stato attuale, un’occasione mezza sprecata. Le annotazioni a margine dei vari spazi in cui scrivere, infatti, trasmettono già gran parte delle regole d’interesse per il giocatore, e in particolare la quasi totalità dei meccanismi di risoluzione delle azioni. Perché, allora, le stesse regole sono ripetute sul retro della pagina, in forma più discorsiva? Suggerirei di eliminare questa ripetizione, controllando che sulla facciata “scheda” ci sia tutto il necessario, e probabilmente spostando qui (lo spazio per farlo non manca) anche le regole relative all’evoluzione del personaggio (tutto ciò che è punti Esperienza, Fato e soprattutto Dannazione).
Lo spazio così ricavato sul retro del foglio per tutti i giocatori potrebbe essere utilizzato per le informazioni di ambientazione (che non c’è particolare ragione di riservare al GM), e così sul foglio del GM si libererebbe spazio per trattare della preparazione degli scenari e simili questioni irrisolte.

Qualche pizzico di speziato oriente

C’è molto che mi lascia perplesso nel, pur breve, trattamento dell’ambientazione. Forse l’autore o gli autori si sono cimentati nel genere fanta-storico senza fare ricerche adeguate… Fare poche ricerche sarebbe anche veniale nella tempistica di un Game Chef, ma quando si coinvolgono elementi di storia e geografia del mondo reale senza conoscerli bene si rischia di scadere (come qui purtroppo accade) in stereotipi triti ed anche offensivi. Uscire dagli ambiti che meglio si conoscono, quando il tempo per informarsi a fondo manca, è purtroppo un grosso azzardo: si rischia di sprecare gli spunti più interessanti seppellendoli sotto la vergogna di un’esecuzione superficiale, grossolana.
Lo spunto de La Città di Giuda parte da una lettura letterale della storia religiosa cristiana (l’intervento di Gesù per salvare l’umanità tutta dal peccato originale) e qui innesta lo stravolgimento che dà inizio a una storia alternativa: Gesù non risorge dalla morte, e di conseguenza tutto cambia. Da un punto di vista sovrannaturale, non essendo Gesù riuscito a “vincere la morte”, le forze del male rimangono libere di intervenire direttamente nel mondo, anche manifestandosi come mostri e demoni in forma fisica che in questo gioco sono i più temuti antagonisti. Dal punto di vista fanta-storico, invece, è la religione cristiana a non costituirsi, cosa che attraverso una serie di salti logici porterebbe alla situazione etnica e politica descritta nel testo d’ambientazione e in qualche modo anche all’esistenza del Pugno di Ferro.
Parlo di “salti logici” non solo perché l’effettiva e comprovata resurrezione di Gesù non mi sembra premessa storicamente necessaria alla nascita del suo culto, né semplicemente perché mi è poco chiaro come la figura di Giuda “simbolo di una condizione umana destinata a inevitabile dannazione” diventi, con queste premesse, oggetto di “adorazione” (anche se trovo molto suggestiva l’immagine di questo cupo culto dell’impiccato, simboleggiato dall’albero e dal cappio di corda)… Potrei anche chiedermi come, da questa premessa, discenda una maggior violenza degli “eredi del decaduto Impero Romano” nella regione palestinese (“Gerusalemme distrutta negli scontri”), o che l’ebraismo sia stato “estirpato” dalla dominazione romana anziché inglobato come minoranza religiosa; per un attimo mi sono domandato perfino come “misteriosi accenni alla cabala” possano essere sopravvissuti a questo scempio se è vero che, come ricordo, la cabala è uno sviluppo medievale dell’ebraismo e quindi in epoca romana non esisteva ancora. Ma no, non sono uno storico del Vicino Oriente antico (sono uno storico del cosiddetto “Estremo Oriente”) e non mi fisserò su nessuno di questi punti pretendendo d’aver ragione: non senza prima aver fatto ricerche specifiche. Licenza d’artista è licenza d’artista, oltretutto, e qui siamo dichiaratamente di fronte a un “fantasy”. Quello che mi cruccia è ben altro, invece, e non penso occorra una laurea in Storia per accorgersene…
La vera domanda è, se mai: date queste premesse, da dove salta fuori un PG biondo di nome Federico? Visto che le “invasioni barbariche” non sono un evento del passato, ma sono ancora in corso, e visto che i “Selvaggi” provenienti dal nord in questo gioco hanno una caratterizzazione del tutto a-storica, non si capisce allora da dove gli abitanti della Città di Giuda “discendenti dai romani” abbiano preso la loro “pelle più chiara”, tratti come “capelli biondi” o “occhi chiari”, e i loro nomi franco-germanici (tutti i nomi d’esempio nella relativa lista tranne “Gaia”, che è latino). Per contro, i “Locali”, di cui si evidenzia il retaggio “semitico”, sono caratterizzati esclusivamente con stereotipi razzisti come “pelle olivastra”, “naso appuntito”, “superstizioni” e “una speziata saggezza mediorientale”… Una **speziata** saggezza mediorientale?! Come dicono i giovani d’oggi: FACEPALM.
I nomi franco-germanici non sono spiegabili, punto. Il colore della pelle, purtroppo, sì, ma preferirei il contrario. L’autore o gli autori del gioco stanno evidentemente aderendo ad una dottrina hollywoodiana delle “razze” per cui i “romani” erano “bianchi” (non sono forse gli antenati diretti dei “bianchi” europei?), e non, come vorrebbe il buonsenso, dello stesso “colore” di tutti gli altri abitanti del bacino del Mediterraneo. Simili fandonie hanno implicazioni politiche non trascurabili quando le racconta Hollywood, ma hanno anche altre, gravi implicazioni politiche quando ce le raccontiamo noi italiani, perché la convinzione di “discendere” in qualche misura dai romani è profondamente radicata nella nostra cultura popolare, non un’esclusiva della retorica fascista. Immaginarci un impero romano di uomini “bianchi” che colonizza o invade una Palestina abitata da persone “olivastre” per noi italiani non è un errore “neutrale”, perché corrisponde a un immaginario razzista tuttora strumentalizzato nel discorso politico (per esempio dalla Lega): l’idea che “noi siamo bianchi”, mentre “altri”, provenienti da oltre un confine arbitrario tracciato a Sud di dove stiamo “noi”, “sono negri”. Attenzione, quindi.
Per di più, forse l’autore o gli autori non si rendono conto (diciamo che spero non se ne rendano conto) di altre possibili implicazioni politiche delle loro scelte di nomenclatura. Storicamente l’associazione con la figura di Giuda è stata utilizzata nell’Europa cristiana per vilificare, simbolicamente, la minoranza ebraica; in questa ambientazione, invece, in cui Giuda viene in qualche modo riscattato (sia pure come simbolo di ogni sfiga, ecc. ecc.) il nome “Uomini di Giuda” non appartiene ai “locali”, ai “semiti”, ma a “bianchi” europei biondi con nomi germanici. “La dominazione romana ha estirpato l’antico ebraismo ”, dice il testo: sembra che l’abbia estirpato così a fondo da annullare ogni possibile identità ebraica, spargendo un po’ di sale sulle rovine bruciate per buona misura. Ci restano solo dei “Locali”, popolazioni di etnia “semitica” ma a cui non sembra necessario dare un vero e proprio nome.
Poi ci sono i “Selvaggi”… Perché non “barbari”, che almeno è termine comunemente usato nella storiografia tradizionale? Tanto, il testo contiene comunque tutti e tre gli altri ingredienti: un termine intrinsecamente offensivo come “selvaggi” rivolto ad una popolazione umana ce lo si poteva risparmiare. Qui, comunque, la faccenda si fa ancora più confusa, perché è impossibile individuare un corrispettivo storico per queste genti. Fanno le veci degli invasori dell’impero romano (storiella forse un po’ datata, ma è come ce l’hanno insegnata a scuola), ma non possono essere popoli germanici, visto che i discendenti di Roma in questa ambientazione hanno *già* nomi e tratti fisici germanici, che denotano un mescolamento già avvenuto. “Sono calati dal nord”, colpendo tutte le vestigia dell’antico impero (diamo pure per scontato che, senza il cristianesimo, con ci siano stati neppure un Costantino, un trasferimento della capitale in Grecia e un Impero Romano d’Oriente). La loro caratterizzazione esteriore è uno stereotipo razzista del popolo “fiero e primitivo”; cito: “alto, possente, imponente, capelli lunghi, lunghe trecce, occhi spiritati, pitture tribali (sic), tatuaggi rituali.” Non se ne specifica il “colore”, ma potrebbero essere tanto celti quanto apache quanto i cimmeri di R. E. Howard. Di sicuro i loro nomi (“Rumore di Tuono, Sole Splendente, Scintilla di Fuoco, Fratello dei Lupi, Miraggio Ingannevole”) sono quelli degli “indiani” di qualche vecchio film western. L’ambientazione li propone come una minaccia esterna che costringe le altre due etnie a collaborare, ma è chiaro (dai nomi e dai tratti appena riportati) che agli autori piacciono, non sono dei “cattivi”: e infatti il Pugno di Ferro, giusto per far vedere quant’è cosmopolita e trasgressivo, li accoglie nelle proprie fila, rendendo disponibili i “Selvaggi” come terza e “strafiga” opzione nella creazione dei PG.
L’ambientazione promette di essere una versione fantasy di Gerusalemme medievale e del Levante, insomma, ma per come viene trattata disattende completamente le aspettative. Il mio consiglio agli autori è di ripartire da zero: magari di ambientare *per davvero* il gioco a Gerusalemme e dintorni nel Medio Evo, con le opportune ricerche. Forse nel complesso mosaico sociopolitico dei regni crociati. E in questa ambientazione potrebbero agevolmente riutilizzare il comodo espediente del Pugno di Ferro… Potrebbe trattarsi, per esempio, di un’armata mercenaria che raccoglie guerrieri di tutte le fedi (cristiani, musulmani, ebrei, ecc.) sotto la missione comune del combattere il male incarnato sempre e comunque dalla stregoneria e dalle creature sovrannaturali; una sorta di Legione Straniera di cacciatori di mostri. In una simile ambientazione, più vicina alla realtà storica, non sarebbe comunque un problema recuperare un’idea “di colore” come il culto di Giuda pentito e suicida (potrebbe essere una dottrina interna al Pugno di Ferro, o esistere come organizzazione separata) o come la mancata resurrezione di Cristo quale giustificazione del potere demoniaco (checché ne pensino, all’interno della fiction, i personaggi delle varie fedi).
Mi auguro, insomma, di vedere presto una seconda versione di questo gioco, in cui ci si sarà sbarazzati degli stereotipi razzisti.

Friday, May 30, 2014

[Commenti Game Chef] L:G:F di Ezio Melega

Il primo gioco che mi accingo a recensire per la fase di valutazione del Game Chef 2014 italiano è L:G:F di Ezio Melega.
“Full disclosure”: Ezio è un mio caro amico da anni e, per diverso tempo, compagno di gioco. Tuttavia, non ho in alcun modo avuto parte nella creazione di L:G:F e sono fermamente convinto di poterne dare una valutazione spassionata.
Nota: se non avete ancora letto il gioco, o se avete letto solo i primi due file e vorreste giocare nel ruolo di Mutato, vi sconsiglio la lettura della recensione. Se volete leggerla comunque, prestate attenzione alle segnalazioni di “spoiler”.

La presentazione

Come altri partecipanti a questa edizione del contest, anche L:G:F si presenta nella forma di alcuni libretti differenziati da distribuire ai giocatori che occupano diversi ruoli: un formato, reso popolare dai playbook di Apocalypse World, che reca diversi vantaggi di immediatezza e praticità rispetto a quello tradizionale del “manuale”. Nello specifico, qui abbiamo un’introduzione comune a tutti i giocatori, un libretto di istruzioni per i giocatori Mutati (che giocano i personaggi protagonisti) e uno per i Primarchi (i giocatori che fungono da opposizione ai Mutati, introducendo nel gioco le avversità), oltre a una postfazione in cui, fra l’altro, l’autore illustra il proprio uso degli “ingredienti” del concorso. Il tema dell’anno, “il libro non esiste”, non è stato affrontato tanto nella forma dell’elaborato, quanto nel suo contenuto.
Alcune ovvie fonti d’ispirazione per il design sono Dog Eat Dog di Liam Liwanag Burke (eccellente gioco sulle meccaniche dell’oppressione, da cui L:G:F riprende in parte anche le meccaniche di segnalini) e The Drifter’s Escape di Ben Lehman (altro caso in cui sono un gruppo di giocatori e non un singolo giocatore a incarnare collegialmente la società come forza oppressiva). L’ambientazione rimanda chiaramente all’abbondante letteratura e cinematografia fantascientifica sulla distopia, ma la maniera in cui è trattata la mutazione genetica (fonte dei superpoteri) inevitabilmente richiama gli X-men dei fumetti Marvel.
Una particolarità del gioco è di contenere alcune informazioni e regole segrete: il fascicolo destinato ai Primarchi non deve essere letto da chi vuol giocare i Mutati, e chi lo avesse già letto non potrebbe più assumere quest’ultimo ruolo. È una scelta di design rischiosa, ma tutto sommato coraggiosa, considerando che sfida quelle che sono oggi le opinioni più diffuse nel nostro ambiente (ovvero che l’uso dei segreti fra giocatori sia design pigro, socialmente problematico, ecc.).
L’idea, qui, mi pare essere che ciascuno provi per la prima volta il gioco nei panni di Mutato e in seguito, scoperti i segreti, possa propagarlo giocando il ruolo di Primarca. L’autore, quindi, ha fatto bene a rendere plurale (o, meglio, collegiale) il ruolo dei Primarchi, e anche a rinchiudere solo il minimo indispensabile di informazioni nel libro “segreto”: tutte le necessarie informazioni logistiche, invece, sono nell’introduzione e nel libro del Mutato, rendendo teoricamente possibile portare i materiali di gioco con sé e proporre il gioco a un gruppo di persone *senza* aver letto il libro del Primarca, e la lettura integrale non richiederà comunque che pochi minuti. Consiglierei, anzi, di rendere più flessibile la proporzione tra giocatori Mutati e Primarchi (al momento fissata in #M=#P o #M=#P+1), in modo da coprire una più ampia casistica di possibili contesti di gioco.
Un’altra conseguenza di questa scelta è che, tendenzialmente, ogni potenziale giocatore giocherà, nella vita, una sola partita nel ruolo di Mutato: dal punto di vista degli obiettivi di design, ciò significa doversi concentrare sul dare un’esperienza completa e soddisfacente al primo (o unico) incontro giocatore-gioco, cosa che richiede di combinare la sintesi con un’estrema chiarezza di comunicazione, e di semplificare meccanismi e contenuti del gioco proprio in funzione di tale massima efficienza comunicativa. Pochi designer sono riusciti in questo, mentre generalmente ci si accontenta di pensare che, poiché ciascun gioco di ruolo è unico, ciascuno presenta una curva di apprendimento separata, e pazienza allora se la prima partita o le prime partite per ogni particolare individuo o gruppo sono tentativi e sperimentazioni non pienamente soddisfacenti!
Poi rimane, naturalmente, il classico problema “sociale” di un sistema fondato sui segreti: discuterne in pubblico. Avrei voluto mantenere questa recensione il più possibile “spoiler-free”, ma sarebbe stato impossibile, perciò mi sono accontentato di segnalare le sezioni che contengono i maggiori spoiler.

I meccanismi

Scene a rotazione per ciascuno dei protagonisti, in base al posto a sedere dei giocatori: un solido classico. Buona idea quella di alternarvi brevi scene, diciamo così, d’intermezzo, vignette in cui i protagonisti non appaiono ma che possono essere usate per mostrare le conseguenze delle loro azioni sul mondo esterno: ciò accade nei turni dei giocatori Primarchi, che appositamente infatti si siedono alternati ai Mutati.
Quest’ultimo è solo uno dei modi in cui Ezio, in questo design, si dimostra estremamente consapevole della gestione degli spazi fisici anche in un gioco di ruolo “tabletop” (cioè, essenzialmente, in una conversazione verbale). Un altro lo si ritrova nei rituali comportamentali suggeriti ai Primarchi: l’uscire dalla stanza per consultarsi, l’importante segnale non verbale di toccare col dito il libro sacro per segnalare la violazione di una “regola” sociale e quindi il conflitto.
I “conflitti” sono risolti senza alcun ricorso alla casualità, ma semplicemente come caso particolare delle regole generali su chi può dire cosa. Soluzione che, almeno sulla carta, mi appare estremamente elegante. Resta comunque la necessità di identificare i “conflitti” come tali nella fiction, sia perché le regole generali hanno qui bisogno di essere applicate con particolare rigore, sia per come è espressamente regolamentata la possibilità di “fare marcia indietro” ritrattando le proprie affermazioni, e anche perché quest’ultimo momento è uno dei punti di contatto (insieme alla riflessione soggettiva di fine scena) in cui il contenuto narrato si ripercuote sul meccanismo dei gettoni.
I gettoni sono il più appariscente e centrale meccanismo estrinseco del gioco. Il loro movimento è influenzato dalla fiction a intervalli regolari (conflitti e conclusioni di scena) e si ripercuote su di essa con aderenza incessante, poiché delimita la gamma di contenuti che ai Primarchi è consentito narrare. La predilezione per una direzione di movimento tra le due possibili (il Mutato può sia perdere, sia acquistare segnalini a fine scena, alla velocità di uno per scena, ma attraverso il conflitto può solo perderne, e in qualsiasi numero) rispecchia nella meccanica di gioco la pressione della sovrastruttura sociale, rendendo un tipo di finale più probabile (e quindi ordinario) e l’altro più straordinario: e quindi potenzialmente più attraente per l’ego dei giocatori, compensando in qualche modo l’illimitato potere di ricatto che i Primarchi hanno nei confronti dei Mutati reticenti all’assimilazione. Questa asimmetria non sembra però sufficiente a introdurre una fonte certa di entropia nel ciclo: nonostante tutto, lo spostamento di gettoni potrebbe, almeno in teoria, proseguire all’infinito nell’alternanza di togli e metti. Per prevenire ciò, viene introdotto un numero fisso di “giri” di scene, dopo il quale ogni valore intermedio viene portato a un estremo e si va, in ogni caso, ai finali: è una soluzione forse inelegante, ma accettabile. Suggerisco che il numero massimo di giri potrebbe diventare una variabile, da stabilire all’inizio del gioco in base al tempo reale a disposizione. Sono sicuramente possibili anche soluzioni più complesse, probabilmente agendo sulla struttura della Guida: per esempio modificando nel corso del gioco i punteggi corrispondenti ai diversi contenuti (rendendoli cioè dei contatori) in modo da eliminare gradualmente dei livelli, soprattutto centrali, finché non rimangono solo i due estremi.
Un appello: il nome di Accettazione per i gettoni è assolutamente fuorviante. A un certo punto ho compreso che ciò si riferisce alla “accettazione della propria vera natura” da parte dei Mutati, ma lo stesso vocabolo potrebbe anche indicare l’accettazione degli individui mutati da parte della società. Alla prima lettura della Guida, infatti, interpretando la parola “accettazione” nella seconda accezione avevo creduto che il compito dei giocatori Primarchi fosse di spingere i Mutati alla ribellione esasperandoli e frustrandoli quanto più cercano d’integrarsi, che invece è l’esatto contrario di quanto la Guida indica di fare! Propongo di cambiare il termine in qualcosa di meno facilmente equivocabile.
Un dettaglio relativamente minore: far mettere per iscritto ai Mutati quelle che pensano essere le regole della società, come elemento di riflessione dopo le scene, mi pare piuttosto debole in questo gioco. A differenza di Dog Eat Dog, infatti, dove le regole create in questo modo diventano a tutti gli effetti le regole in vigore, qui rimangono per necessità delle ipotesi. Il senso di questo “rituale” credo sia il sottolineare ogni volta che esistono delle regole inconoscibili, e che è stata l’infrazione di quelle regole a causare guai al personaggio… Ma penso sarebbe più efficace, e più in linea col ruolo dei Mutati, se questo piccolo rito rimanesse del tutto orale. L’atto di scrivere rischia di evocare una legittimità a cui le ipotesi formulate in questa fase non possono ambire.

Il contenuto

Questa è la parte della recensione in cui non riuscirò a evitare i grossi spoiler! Quanto segue, inoltre, sconfina quasi nelle divagazioni filosofiche spicciole, quindi chi è curioso di giocare a L:G:F come “Mutato” salti pure alla sezione successiva (“Uscire dai confini del libro”) senza particolare indugio.
“Oppression superpowers”: queste parole mi sono spesso lampeggiate nella mente durante la lettura, ma con un punto interrogativo alla fine. “Oppression superpowers?” Ovvero, il gioco scade in questo sciagurato cliché o lo evita con un saltello? L’ambientazione di L:G:F ha qualcosa di involontariamente sconsiderato, o piuttosto il problema è stato considerato attentamente e, nell’opinione dell’autore, risolto?
Ci sono più letture possibili della metafora… Una sarebbe quella sull’adolescenza, quindi sull’accettazione di se stessi nella propria trasformazione fisica e mentale, processo che comunemente racconta se stesso come un conflitto con “l’autorità”, entità indefinita e onnipresente. Ci sono più letture possibili, sì, ma ciò che vedo più immediatamente problematico, nella premessa di questo gioco così come in ogni storia di “mutanti” oppressi, è il ruolo della genetica.
Sappiamo che nel mondo reale ogni forma di discriminazione è, per definizione, un dato culturale ed è, sempre per definizione, infondata: anche quando (come accade nei razzismi, ma non solo) si rifà ad una presunta base genetica. Razionalmente noi sappiamo che la specie umana è una ed una soltanto, che tutte le differenze genetiche fra individui sono appunto differenze individuali e che è mera pseudoscienza il suddividere la nostra specie in due o più gruppi giustificandolo con “i geni”. Scenari come quello delineato in L:G:F sembrano corrispondere alla lettera alle fantasie dei razzisti, restando perciò portatori di un messaggio essenzialmente fuorviante anche quando l’autore si schiera senza indugio dalla parte dei “diversi” di turno: perché essenzialmente fuorviante è immaginare una “diversità” giustificata da ipotetici fatti oggettivi (la mutazione genetica “Falce”).
*[ATTENZIONE: GROSSI SPOILER]* La domanda che mi pongo, senza peraltro sapermi rispondere, allora diventa: nel campo della rappresentazione metaforica di fenomeni socioculturali reali, trasfigurati nel fantastico, quanto l’intento esplicito di portare l’attenzione su un errore di rappresentazione giustifica l’impiego strumentale di una rappresentazione errata, e quanto invece la proliferazione di rappresentazioni errate rimane dannosa indipendentemente dal fine che si prefigge? Nello specifico del game-design, la domanda a cui non so rispondere diventa: la “morale” a fine gioco confinata in un “falso fondo” è una forma di comunicazione efficace, in cui l’effetto sorpresa serve a meglio sottolineare il concetto? O è una forma di comunicazione carente, perché dobbiamo preventivare una maggiore esposizione alla “copertina” che non al “vero” contenuto?
In altre parole, mi domando se la questione genetica (come potenziale metafora della persecuzione razzista) in L:G:F sia sufficientemente problematizzata, e la mia impossibilità a trovare una risposta dipende dalle caratteristiche della forma. Potrei dare un giudizio positivo (non *nettamente* positivo, ma positivo) sul testo, quando letto integralmente e quindi da un aspirante giocatore Primarca, ma ho difficoltà a fare pronostici sugli esiti comunicativi nel gioco giocato. Tendenzialmente, il gioco di ruolo come mezzo di espressione politica (del game designer) ha scarso impatto: verrà giocato quasi esclusivamente da chi già condivide più o meno le posizioni dell’autore, e vissuto come una riconferma e celebrazione di quelle idee. Diventa realmente significativo quando si riesce a controllare il pubblico a cui è destinato, oppure quando il fulcro si sposta dall’affermazione di una posizione alla disamina di dinamiche reali (Dog Eat Dog, The Drifter’s Escape, GR di Tobias Wrigstad…) nelle quali il giocatore si “immerge” in maniera sicura e ha così l’opportunità di comprendere in maniera intuitiva collegamenti e meccanismi che non sono evidenti dall’esterno. Se quest’ultima fosse l’aspirazione di L:G:F, la maniera in cui è posta inizialmente la questione genetica potrebbe rivelarsi un limite insormontabile. Dico “potrebbe” perché non ho abbastanza esperienza con le rivelazioni a sorpresa nel finale in un contesto politico-pedagogico per fare pronostici, e non conosco neppure molta letteratura a riguardo (un raffronto possibile è col live System Danmarc, dove però “la rivelazione” avvenne nel debriefing). Anche le peculiarità di un’ambientazione fantascientifica, altamente simbolica, rischiano di diventare una distrazione se questo è l’intento.
*[ATTENZIONE: GROSSI SPOILER]* Un dettaglio che mi ha particolarmente colpito, a cui continuo a ripensare, è la prima pagina (la copertina o facciata) del libretto del Primarca, che presenta un punto di vista del tutto ragionevole ed equilibrato: delle ottime e logiche ragioni per preservare una società in cui ai possessori/utenti di superpoteri non sono accordati maggiori diritti, in cui il potere dato dalla Falce è regolamentato come sarebbe regolamentata un’arma da guerra in tempo di pace. Sebbene il destino di questa facciata sia di essere contraddetta alla pagina successiva, continuo a ripensarci perché se fosse questa la verità sui Primarchi essa porrebbe le basi per il tipo di gioco e di storia che io amo di più: quello in cui nessuno ha completamente torto o completamente ragione, perché tutti sono semplicemente umani… Se solo la fonte dei superpoteri non fosse genetica, con tutti i problemi che ciò implica! Forse, se qualcosa di questa facciata fosse vero, se le motivazioni dei Primarchi fossero più sfumate, ciò porterebbe a maggiori possibilità di gioco metaforico sull’esperienza dell’adolescenza, sull’anarchismo politico, sul confine tra ribellione e terrorismo, e altre domande di cui non abbiamo già in tasca la risposta giusta? Allo stato attuale la rivelazione finale, mentre corregge il torto che la premessa iniziale aveva arrecato alla nostra realtà, rischia anche di vanificare ogni riflessione profonda fino a quel punto scaturita, nel momento in cui l’edificio sociale del mondo immaginario crolla come un castello di carte.
*[FINE DELLA PARTE PIÙ FITTA DI SPOILER]*

Uscire dai confini del libro

Premesso che quello che ho di fronte è un gioco evidentemente già giocabile, una bozza di cui mi sentirei in grado di iniziare un playtest anche ora (ma ciò è generalmente vero dei concorrenti di questo Game Chef Pummarola), per un caso fortuito secondo me è proprio il tema “il libro non esiste” (nell’accezione di ricerca di metodi di comunicazione alternativi che molti gli hanno dato) a indicare la più logica direzione di sviluppo per L:G:F.
Considerando infatti la presenza di informazioni segrete, di gesti e comportamenti rituali, e il probabile interesse a selezionare il pubblico a cui rivolgersi (per controllare potenziali derive del messaggio), io suggerisco a Ezio di pensare a L:G:F non tanto come a un “prodotto” (un libro, cartaceo o digitale, un oggetto-testo da scaricare dalla rete) quanto come a un “evento”.
Pensare il gioco di ruolo come un evento significa partire dalla situazione logistica e sociale, dal ritrovo di persone, e considerare tutto il materiale testuale e di altra natura come mera componentistica. Significa partire dalla presenza fisica dell’organizzatore-autore come punto d’inizio, senza escludere che poi da lì una palla di neve prenda a rotolare. Significa sgombrare la mente dalla necessità di descrivere/promettere un gioco attraverso un testo, e concentrarsi solo sul dare un’esperienza di gioco a queste persone in questo momento. Richiede il coraggio, insomma, di abbracciare la realtà dei fatti così com’è, sbarazzandosi della bugia di un libro che, tanto, non esiste.

Friday, June 28, 2013

Adults backup their blogs

I once wrote that I didn't feel secure having so much of my life happening on Google-hosted services. But then, as we're all prone to do, I felt the pressure of more urgent matters to care about, and didn't take any significant steps toward fixing that particular problem. Maybe, then, I deserved the piece of corporate shit I found in my mailbox yesterday — a poorly machine-translated version of this e-mail so many other bloggers have been bombed with:
Important Update to Adult Content Policy on Blogger
You are receiving this message because you are the admin of a blog hosted on Blogger which is identified to have Adult content.
Please be advised that on June 30th 2013, we will be updating our Content Policy to strictly prohibit the monetization of Adult content on Blogger. After June 30th 2013, we will be enforcing this policy and will remove blogs which are adult in nature and are displaying advertisements to adult websites.
If your adult blog currently has advertisements which are adult in nature, you should remove them as soon as possible as to avoid any potential Terms of Service violation and/or content removals.
Sincerely,
The Blogger Team
"Identified" by whom? I mean, I could take "adult content" to be a compliment: yes, please, I'd really like to think what I'm writing about is not childish — but I know that isn't what they mean. They mean: "having to do with sex/sexuality/pornography, which we believe are all the same, and think is a bad thing". Except that, never mind I wholeheartedly disagree with them (since according to their terms-of-services I don't have the right to disagree), this is a blog about role-playing games, for fuck's sake! What's their issue with it, exactly? That it's got a catchy title? That I link to a few so-called "adult" sites in my blogroll (including sex-ed blogs, newsblogs, political activism blogs and art blogs which happen to include pictures of human genitalia, or breasts)? Or maybe it's my occasional use of curse-words?
Now, I don't run any ads, thus this change of policy shouldn't affect me, in theory. But they already misclassified my blog as a "sex" blog, right? Without even bothering to check. Thus, how likely is it that they correctly discriminate between "blogroll links" and "ads", always and without error? Yeah, not the most reliable ground to build my house on.
Out of solidarity with actual sex bloggers, though, I'm not going to make any preemptive change (be it to my blogroll or else). Instead, I backed up my blog and, well, should l'Orgasmo Cerebrale suddenly disappear from this Google-hosted corner of the Internet without further notice, you'll know why — but then it would soon pop up somewhere else.

If you have a blog hosted on Blogger, here are instructions for performing a backup — something which I now think wise to do regularly. ErosBlog also suggests a method to backup virtually any website using HTTrack Website Copier: I haven't tried it yet, but I will. Keeping backups in multiple formats will probably make it easier to set up my blog again on a different server, should I have to.

«I'd rather be a pig than a pro-censorship advocate.»

Monday, October 29, 2012

Owned

You've been owned
We're all being owned.
You've been owned

Ma… Rafu — già m'immagino dirà qualche lettore, lasciandosi confondere dalle solite semplificazioni dualistiche che in fondo esistono apposta — da quando in qua sei una specie di paladino della proprietà privata? Ti sembra una cosa abbastanza di sinistra di cui preoccuparsi, questa?
Solo che qui non si tratta affatto, a parer mio, di difendere la proprietà privata in quanto proprietà; si tratta invece di difendere i diritti degli individui — cioè degli esseri umani — contro i diritti delle aziende. Cioè della roba. Si tratta dei diritti degli esseri umani, che gli esseri umani hanno sulla roba, contro i diritti della roba, che la roba avrebbe sugli esseri umani. A me sembra pazzesco, se mai, che dobbiamo davvero essere qui a parlare di questo… Ma ci siamo. Nessuna delle più fondamentali ovvietà è scontata: nessun diritto è garantito, neppure — come in questo caso — di fronte al paradosso.
Si tratta di legislazione statunitense, certo. Ma inutile fingere di ignorare il precedente, pericoloso, che essa pone per tutti.

Per quanto riguarda invece la merda che puzza più immediatamente sotto il nostro naso, temo che al parlamento italiano l'abbiano azzeccata: evidentemente la seconda volta puzza meno e nessuno la nota.

Friday, May 18, 2012

Ulrich Beck in the shower

I'm told this was originally posted by Evan Torner on some "google plus" venue. Paul Czege was kind enough to share it with me.

So I've re-read some of the German sociologist Ulrich Beck and determined the following way of presenting capitalism's "issues" to undergrads while in the shower:

1. Capitalism only works by feeding itself. It has no natural predators. It is a badly written game system that serves no one.
2. To feed itself, it must constantly monetize and rationalize the world.
3. Monetizing and rationalizing the world means subverting or destroying structures that do not provide capital and predictable gains. Everything must become an "industry." Everything consumable, and locked away.
4. Capitalism actually doesn't act on the level of the individual - it requires unassailable institutions (governments, corporations, industry networks) that systematize the extraction of wealth and value through making everything consumable but locked away.
5. Minimizing risk in the extraction of wealth and value means projecting any social, health or financial problems onto the individual.
6. Individuals then become the managers of their own risk (Beck's thesis). They are isolated, alone with their bad bargains and untenable decisions. Cutting them off from communities or inserting capitalist relations into communities to monetize and rationalize them make these individuals easier to control and incorporate into capitalist logics (debt, alienated labor).
7. Nobody likes being the manager of one's own risk (how stressful!), so those who can afford it quietly build up new social defenses (i.e. personal wealth, gated communities, Platinum cards) against the risk management.
8. The wealthy's bolstering of their own defenses requires capital, so further pressure is applied on those poorer individuals ("young, loitering, non-property-owning, poor" as Rich Benjamin recently put it) to create a safety net for themselves. Communities for the 1% holding all the wealth preserve pre-capitalist social networks and leisures. They help perpetuate the chaos outside their walls while believing themselves to be mere managers of their own wealth. A community-defense mentality sets in, and others not in on the 1% believe they can gain access to their safety nets if they help capitalism push the rest of the 99% down.
9. The poor are meanwhile fed into feedback loops (like the prison industrial complex or the surveillance state) to track their risk while denying them the ability to adequately manage it.
10. Poor people turn to desperation, and so do the talented people who don't want to be poor. Everyone oppresses everyone else in the hopes of getting behind the wealthy's wall (though they're still overworked and anxious thanks to the risk society).
11. Everyone oppressing everyone else is actually not a desirable, productive or healthy psychic environment. Despite or perhaps because of their defenses, the wealthy continue to feel insecure. Were they the ones responsible for this mess? Of course not! An abstract system that, by definition, cannot take responsibility is, in fact, responsible. But they as individuals need to continue protection against risk until the mess "sorts itself out." They churn up the engines of capital to protect themselves, and the cycle continues.

I see now how socio-historical catastrophes happen. It's these damn feedback loops.

Tuesday, August 9, 2011

Behold an awesome, awesome human being!


The awesome human being in question being Levi Kornelsen, who single-handedly and sorta-understatedly begun a feat worthy of a hero of the ages to come, deserving a huge badge of awesomeness.

Levi is developing a fantasy role-playing game, Awen, built on the bones of his long-time-in-development project "The Exchange", plus a set of new ideas he more recently came up with about "world creation" being a consequence of character creation, etc. Something like the latter is found in Apocalypse World, sure, but way less formalized, and Levi may well be the first after Vincent Baker to implement new tools toward that end, in a time when everybody seems content with making Apocalypse World hacks. But this is only half the story…

Like so many of us these days, Levi is running a crowd-funding campaign to fund the development of the game (in other words, to at least partially re-pay himself and/or any helpers of the hours spent working on the project). The big deal is: Awen will be released into the Public Domain as soon as it's completed. Thus, by pitching in your five or ten dollars you're not "buying a game", you're helping make a game for everyone in the world who may want to play it. And you're making a gift today to all of the friends you will ever want to play the game with, or pitch the game to — including those friends you haven't yet met.
Way to make Levi climb to the top of my personal chart of awesomeness.


Please, join in. Everybody who's reading this, please chip in the five bucks if you have those, but especially, please, tell all of your friends, and tell them to tell their friends — you know how that works.
My expectations regarding the game as a game are high enough, really, but even if they weren't I'd still be urging all of you to help Levi out. Because we're living on the edge of something huge. As small as it may look now, Levi is (marching in the front line and taking the risks) trying out a new model for artistic work: one more sustainable, more civilized than the rotting and rotten one we have today. I really think supporting Awen means to support change for the best, if just in this small, small world of ours which is role-playing games.
Thank you.

Thursday, July 21, 2011

Why I'm not on Google+

Having a large number of friends — and not in the Facebook sense — I'm not surprised that I received several invitations to Google's new "social network", Google+. Instead of rushing headlong into it, though, I let those invitations rest for a while, while considering whether joining would actually do me any good.
I'm glad I was cautious. In almost no time, and with no effort on my part, I received enough off-putting, if unsurprising, news to decidedly make my mind.
Google+ terms of service and policy are as always geared towards the benefit and safety of Google, not my benefit and safety. They are explicitly sex-negative, even going so far as removing a specific exception for art nudes which was previously in place. They are chicken-hearted blanket statements meant to empower the company to arbitrarily disallow content on a case-by-case basis, which amounts to censorship. Cue the completely arbitrary ban of Anonymous. What does that remind me of? Oh, yeah…


Well, I'm not joining. I didn't resist joining Facebook for so long just to impulse-subscribe a service which is just the same, affected by just the same liabilities and involving just the same dangers. For the time being, I'll go on using the Status.net (specifically identi.ca) as my sole "social network" provider.
My connections — the real-life ones — are an asset to a company like Google, and what has Google done to merit me gifting them with my assets? My demands weren't that high either: just by doing nothing at all they'd have qualified as exceeding my expectations. But no, they censored content and people, instead.
I'm actually beginning to feel uncomfortable having my e-mail, blog and a couple in-development websites all hosted by Google: surrendering this much of myself to a company was a mistake. At the time, they looked like the safest of companies, but I was just young and naive: big business is big business, and in the end their friendly facade is crumbling and revealing the extent of the lie. I will go looking for alternatives. So, maybe I ought to thank Google+ for raising my awareness of the problem.

Thursday, July 29, 2010

Martirio e apologia di certe piccole e brutali democrazie rivoluzionarie

Pirate ships are democracies. The pirate company elects its captain and can call for him to step down and accept replacement if it’s not satisfied. The company also votes where to sail, how to provision the ship, and what ships to attack as they go.
However, you and I both know what small group democracies are like. I’ll lay you twenty that more decisions get made by doubledealing and bullying than by honest vote.
Still, when you trace a pirate ship’s path, it usually won’t seem to have much sense or forethought behind it. Maybe they do travel at the whim of the vote after all. (D. Vincent Baker, Poison'd)
Per molti dei miei lettori è certo una notizia già vecchia l'annuncio che One Manga sta per chiudere. Scommetto anzi che molti di voi si sono già messi da un pezzo alla ricerca di alternative, e magari le hanno anche già trovate, o no? Io invece, debbo ammetterlo, non sono mai stato un loro utente — proprio questo anzi è il periodo della mia vita in cui volentieri lo diventerei, se non fosse già troppo tardi. A pungolarmi a scrivere dell'argomento in questa sede è stata peraltro questa discussione su Gente che Gioca, specie per i curiosi esiti che ha avuto.
Esporvi il mio punto di vista a riguardo mi richiede, innanzitutto, di rinviarvi al recente passato (e in particolare qui e qui). Ora penso indovinerete dove voglio arrivare... Come quasi sempre (e in linea di principio sempre) in materia di copyright, qui gli interessi salvaguardati, gli interessi "a rischio d'essere lesi", non sono in realtà quelli di alcun autore, di alcun creativo, bensì quelli di un sodalizio di vecchi lenoni delle case editrici. "In un mondo ideale" (quello cioè in cui gli autori e solo gli autori mantengono - sempre - la proprietà delle loro opere, ma la ragione della diffusione della cultura prevale per principio sulla ragione del profitto individuale) anche le serie a fumetti giapponesi sarebbero autoproduzioni, e le varie combriccole di "fansubbers" e "scanlators" rappresenterebbero l'unica forma di interfaccia con l'estero di cui un'opera possa mai aver bisogno. Se come me siete giocatori o game-designer che attribuiscono un valore all'essere "indipendenti", se credete in quanto fu enunciato da Ron Edwards in The Nuked Apple Cart (ora anche in italiano), allora amici voglio credere che la vostra opinione sulla grossa editoria in genere non si discosti troppo dalla mia.
E con questo, dunque, vorrei esaltare i "pirati" a eroi del popolo e della rivoluzione? Piano... Ammettiamo, innanzitutto, che la preponderante  maggioranza degli utenti di One Manga e consimili sono individui ai quali ne frega meno d'un cazzo delle questioni ideologiche: sono solo, molto più banalmente, gente che se ne approfitta per non "uscire i soldi" [grazie, Daniele!]. Ma chi invece le scanlation le realizza (facendosi "un culo tanto") non può certo essere mosso da opportunismo o pigrizia, evidentemente, né da ragioni di profitto: quella è gente che lo fa per passione, e come tale merita tutto il nostro rispetto.
Aggiungo, poi, che sono assai restio a inneggiare all'infrazione della legge, a dispetto della stupidità d'ogni normativa sul copyright: sono restio perché constato come invece siamo ancora obbligati a sfruttare proprio la stupida lettera delle leggi per rendere possibile il copyleft, e non abbiamo oggi altre linee di difesa contro i baroni feudali della "proprietà intellettuale".
Eppure alla gente che sta dietro a One Manga — così come ad altri Robin Hood della cultura umana — sento di dovere innanzitutto rispetto per il loro coraggio, che ha permesso loro di (r-)esistere finora, e per una nobiltà di fini che, non valendo a giustificare indiscriminatamente i mezzi, merita purtuttavia stima. La democrazia dei pirati? Violenta e discutibile, ma pur sempre democrazia in un mondo che altrimenti non ne conosceva affatto.
Tornando invece al (vero) punto di partenza del mio ragionamento: su Gente che Gioca l'intero contenuto di questo mio post avrebbe violato il regolamento (e, per la verità, ne avrebbe violato norme plurime). Può aver senso una cosa simile, vista la "missione" di quel forum? Io lo trovo profondamente sbagliato, un vero e proprio "bug", e insisterò per una revisione del regolamento che ne tenga conto.

Tyler Durden pensa che il fine giustifichi i mezzi. Io, per conto mio, condivido solo parzialmente i suoi fini, e un po' meno ancora i suoi mezzi. Ma mi è comunque simpatico.

Wednesday, July 28, 2010

L'Orgasmo Cerebrale è ora democratico!

L'Orgasmo Cerebrale si piega alle esigenze della vita e del pensiero moderno e introduce un'innovazione epocale: la democrazia! Più precisamente, la introduciamo nella sua forma in assoluto più moderna e più digeribile, per voi lettori impegnati che avete bisogno di idee premasticate e fatte in pillole onde non distogliervi dai vostri importanti impegni lavorativi e sociali su facebook: il bipolarismo. Ebbene sì, amici miei: da oggi in poi, al di sotto di ogni mio post troverete due simpatici bottoncini che vi permetteranno di votare, dando voce istantaneamente alla vostra opinione! Per quanto riguarda poi il contenuto della vostra opinione, avete a disposizione le seguenti due opzioni: esprimere uno sconfinato amore nei miei riguardi comprensivo di un incontenibile desiderio carnale, oppure minacciarmi pubblicamente di morte. Che cosa potreste chiedere di più? ^_^

A proposito di democrazia: ho disattivato la moderazione dei commenti, visto che il suo unico scopo era prevenire i messaggi di spam mentre invece qui di spam non se n'è mai visto. O forse questo non conta come vera democrazia, in quanto estremismo da radicali?

Wednesday, June 23, 2010

Fermenti di una ben più reale ribellione

Negli ultimi giorni, e in particolare oggi, mi sono ritrovato a leggere numerosi articoli e notizie interessanti dai toni molto simili. La sensazione è che la cosa sia ormai così urgente da non poter essere ignorata. Dove "la cosa" è il passaggio dal cartaceo al digitale, con l'effetto che ciò avrà sull'editoria.

Clay Shirky fa il punto in un'interessante intervista.

La cosa ha implicazioni molto specifiche per il settore del fumetto giapponese.
Altro articolo legato allo stesso argomento.

Ma il "nostro" giro era già il più avanti (post, infatti, vecchio di due mesi, che curiosamente mi era sfuggito).

Picture unrelated!

Thursday, April 8, 2010

Naked Went the Gamer

Il titolo è di un articolo di Ron Edwards che trovo molto interessante e godibile. Tempo fa, acquistai un numero di Fight On! (la rivista del cosiddetto "Old School Renaissance") appositamente per poter leggere questo brano, incuriosito dalle controversie che aveva suscitato in giro per la Rete (offendendo la delicata sensibilità, o forse dovrei dire l'amor proprio, dei soliti geek dalla pelle troppo sottile). Nonostante lo scarto generazionale tra "il professore" e me, mi resi conto di condividere di cuore gran parte delle sue posizioni. Sono stato quindi felicissimo di scoprire recentemente che l'articolo è stato messo online sul sito dell'autore: lo segnalo dunque ai miei lettori, raccomandandolo con trasporto.