Friday, June 28, 2013

Adults backup their blogs

I once wrote that I didn't feel secure having so much of my life happening on Google-hosted services. But then, as we're all prone to do, I felt the pressure of more urgent matters to care about, and didn't take any significant steps toward fixing that particular problem. Maybe, then, I deserved the piece of corporate shit I found in my mailbox yesterday — a poorly machine-translated version of this e-mail so many other bloggers have been bombed with:
Important Update to Adult Content Policy on Blogger
You are receiving this message because you are the admin of a blog hosted on Blogger which is identified to have Adult content.
Please be advised that on June 30th 2013, we will be updating our Content Policy to strictly prohibit the monetization of Adult content on Blogger. After June 30th 2013, we will be enforcing this policy and will remove blogs which are adult in nature and are displaying advertisements to adult websites.
If your adult blog currently has advertisements which are adult in nature, you should remove them as soon as possible as to avoid any potential Terms of Service violation and/or content removals.
Sincerely,
The Blogger Team
"Identified" by whom? I mean, I could take "adult content" to be a compliment: yes, please, I'd really like to think what I'm writing about is not childish — but I know that isn't what they mean. They mean: "having to do with sex/sexuality/pornography, which we believe are all the same, and think is a bad thing". Except that, never mind I wholeheartedly disagree with them (since according to their terms-of-services I don't have the right to disagree), this is a blog about role-playing games, for fuck's sake! What's their issue with it, exactly? That it's got a catchy title? That I link to a few so-called "adult" sites in my blogroll (including sex-ed blogs, newsblogs, political activism blogs and art blogs which happen to include pictures of human genitalia, or breasts)? Or maybe it's my occasional use of curse-words?
Now, I don't run any ads, thus this change of policy shouldn't affect me, in theory. But they already misclassified my blog as a "sex" blog, right? Without even bothering to check. Thus, how likely is it that they correctly discriminate between "blogroll links" and "ads", always and without error? Yeah, not the most reliable ground to build my house on.
Out of solidarity with actual sex bloggers, though, I'm not going to make any preemptive change (be it to my blogroll or else). Instead, I backed up my blog and, well, should l'Orgasmo Cerebrale suddenly disappear from this Google-hosted corner of the Internet without further notice, you'll know why — but then it would soon pop up somewhere else.

If you have a blog hosted on Blogger, here are instructions for performing a backup — something which I now think wise to do regularly. ErosBlog also suggests a method to backup virtually any website using HTTrack Website Copier: I haven't tried it yet, but I will. Keeping backups in multiple formats will probably make it easier to set up my blog again on a different server, should I have to.

«I'd rather be a pig than a pro-censorship advocate.»

Friday, June 14, 2013

Game Chef: dicono di "Lift Girl - La ragazza dell'ascensore", parte #4

"Guest post"! L'opinione di Stefania Dorigatti e Giacomo Vicenzi:

Introduzione: Questa valutazione è stata fatta in maniera corale da Stefania Dorigatti e Vicenzi Giacomo. Se c'è qualche commento esplicitamente legato ad uno di noi due verrà specificato tra parentesi; in caso contrario si tratta di un commento comune.
Abbiamo cercato di mantenere come scheletro della recensione i 5 principi di valutazione (ingredienti e tema, rischio, entusiasmo, giocabilità e innovazione) e i 3 punti (aspetti migliori, aspetti peggiori e valutazione generale) indicati dagli organizzatori del contest. Buona lettura!

Ingredienti e tema: il tema è anche fin troppo palese. Non capiamo perché nessun'altro abbia pensato all'ascensore quando invece il titolo del tema era proprio lift. Forse sei stato l'unico ad avere le idee così originali da farcelo stare in un gioco di ruolo, e questo ti fa onore.
Per gli ingredienti invece siamo un po' dubbiosi: mentre lo sforzo era proprio quello di amalgamarli con le regole principali, tu hai costruito dai due ingredienti usati le varianti di gioco; come tali sono opzionali e
questo ci lascia un po' perplessi. Non che sia proprio un vero problema, ma volevamo dirlo esplicitamente.
Forse che le interpretazioni di chainmail e paper lantern ci sfuggono? Sarebbe stato meglio esplicitare.
Tutto sommato però, il tema è così forte che gli ingredienti passano addirittura in secondo piano.

Punti forti: il gioco è molto carino. Palese l'ispirazione a It's complicated! che proprio tu ci hai fatto giocare e adorare. È bello vedere un gioco dove i personaggi sono gestiti in qualche modo in maniera corale e possono essercene molti. La protagonista del gioco è in fiction "l'ultima ruota del carro" ma a livello di regole è tutto basato su di lei. Anche questo è molto interessante.
Ribadiamo anche che il color di questo gioco è decisamente innovativo e non può che suscitare curiosità.

Giacomo dice che...

L'apposizione tra aspetto esteriore ed interiore è molto bella ed intrigante; il gioco ha un non so che di anime e di Giappone, cosa che non mi dispiace affatto.

Stefania dice che...

L'uso dei tarocchi per salire e scendere nei piani del grattacielo è molto originale e bella.

Punti deboli: il gioco pare concludersi solo quando lo dice l'Ascensorista, per una sua scelta personale.
Questo è strano perché:
- nessuno contribuisce a concludere il gioco se non lei
- non è una meccanica ma una scelta personale, che può avvenire dopo 10 minuti di gioco o dopo anche molteplici sessioni
Se l'autore voleva proprio questo buon per lui ma, secondo noi, non è un buon modo di concludere un gioco. Non sono necessari dadi o statistiche, ma forse una scelta corale o più oggettiva ("quando si eliminano X personaggi..." oppure "i personaggi prima o poi vengono per forza 'distrutti', sta all'Ascensorista provare a recuperarli dandogli punti X per mantenerli in gioco, ma così si avvicina alla fine", o ancora "gli altri giocatori fanno X perchè..., quando si raggiunge XY allora il gioco finisce"). Scusaci ma non ci vengono in mente idee più concrete adesso ^^'

valutazione generale: al di là della gestione del finale, il gioco può sicuramente funzionare benone e anzi, si prospetta sia divertente che introspettivo. Hai sicuramente stimolato la nostra curiosità, complimenti!

Thursday, June 13, 2013

Recensione Game Chef 2013: “Legione Straniera”, di Iacopo Frigerio

[Con colpevole ritardo, ecco finalmente l'ultima delle mie recensioni "ufficiali" per il Game Chef!]

Frigerio è autore ed editore di giochi di ruolo fra i più prolifici in Italia negli ultimi anni, sempre mantenendo un profilo che definirei “d’essai”. Legione Straniera (titolo provvisorio, presumo) è la sua proposta per questo Game Chef, e si presenta alla lettura come un elaborato scarno e di certo scritto molto rapidamente, dalla forma quasi di appunti per una futura stesura, e tuttavia (anzi, forse proprio per questo) intriso di una elevata professionalità.
Professionalità perché l’autore, nel suo approccio alla competizione, non ha tentato (per esempio attraverso la grafica o altri aspetti della presentazione) di costruire l’illusione di un prodotto finito, ma si è concentrato esclusivamente sul design delle meccaniche di gioco realizzando una prima bozza strettamente funzionale al playtest. Non dico che questo sia l’unico approccio “corretto” al Game Chef, né necessariamente il migliore (del resto, accade di frequente che alcuni componenti della presentazione agiscano da fattori determinanti del gameplay, comportandone il coinvolgimento imprescindibile in ogni stadio del processo di design), ma mi appare come un approccio estremamente onesto, e anche responsabile: nel senso che, quando un designer ha fatto un così visibile investimento di lavoro nel primo concept di un gioco salvo presentarlo come bozza così chiaramente provvisoria, ciò sembra implicare che si stia fin dall’inizio assumendo la responsabilità di continuarne lo sviluppo, perché riconosce che questo è solo il primo passo di un processo lungo e articolato.

L’ambientazione

Trovo la scelta di un’ambientazione storica un’ottima mossa per una competizione a tempo come il Game Chef. Intanto, come prova di coinvolgimento dell’autore nella tematica: poiché l’uso di un’ambientazione storica presuppone un lavoro di ricerca, e quindi nel contesto di uno stretto limite di tempo dimostra un interesse preesistente per un argomento che il designer in qualche modo ha “sentito risuonare” con il tema e gli ingredienti della competizione. Troppo spesso, invece, noi concorrenti (e io per primo ne ho una lunga storia) siamo colpevoli di arrampicarci sugli specchi costruendo ex novo attorno agli ingredienti ambientazioni fantascientifiche o fantastiche che, inevitabilmente, risultano poco approfondite, deboli o farraginose.
Poi, perché è proprio un’ottima mossa come strategia di presentazione: invece di dedicare pagine alla descrizione di un mondo, consumando tempo di lavoro e parole (entrambe risorse limitate), è sufficiente che l’autore indichi in breve quelli che considera gli aspetti salienti dell’argomento, lasciando ai lettori il compito di fare ricerche e approfondire, se lo vogliono. Letture specifiche sulla Legione Straniera francese ne esistono sicuramente a iosa, e oggi viviamo in un mondo in cui l’accesso all’informazione storica è relativamente facile. Beninteso, in future versioni del testo mi aspetto comunque (per cominciare) una bibliografia ragionata, strumento con cui il designer potrà orientare i giocatori verso un taglio interpretativo conforme a quello che lui stesso ha seguito nel suo design.
Mi colpisce favorevolmente anche la scelta, abbastanza originale seppur non senza precedenti, di prendere come ambientazione non un periodo storico e un luogo, bensì l’intera storia di un’istituzione. Tuttavia, penso anche che non toglierebbe nulla al gioco se in future edizioni del testo l’autore decidesse di concentrarsi, per esempio, solo su una specifica guerra: sarebbe una scelta decisamente più pratica se si volesse presentare, insieme alle regole, un compendio di informazioni storiche e di costume tale da rendere solo opzionali ulteriori letture.

Le meccaniche

Nessuna delle meccaniche impiegate in Legione straniera è di per sé particolarmente originale: si tratta piuttosto di un buon mix di elementi già visti in molteplici altri giochi, di ruolo e non. Un design “frankenstein”, quindi, e complessivamente ben fatto in questo, che è prova di buon “mestiere” ma soprattutto della vasta erudizione ludica dell’autore: sarà interessante leggere, in una futura stesura, una ludografia delle sue fonti d’ispirazione dichiarate. Tiene insieme il tutto la strategia di design più classica e meglio collaudata: affidare l’inquadramento di tutte le scene, l’introduzione di avversità sia immaginate sia meccaniche, la gestione delle poche informazioni segrete e, oserei dire, “il ritmo” del gioco a un singolo giocatore, qui chiamato “Guerra”. Ci vuole sempre un pizzico di coraggio e una certa sicurezza di sé per far questo in una competizione del genere, in cui si viene giudicati anche per l’originalità, invece di tentare a ogni costo impianti di gioco più “alla moda” o anche deliberatamente “strani” che poi, tante volte, si rivelano eccessivamente complicati o comunque non funzionanti.
La meccanica di risoluzione dei conflitti (terminologia non impiegata nel testo, ma che non esito a utilizzare per analogia) è basata sui dadi e sull’azzardo e prevede una “posta” sempre fissa e non negoziabile: il legionario viene ferito oppure no? La componente di azzardo è ciò che lega questi tiri di dado alla fine del gioco, visto che al giocatore si richiede di “risparmiare” dadi nel corso della partita per poter poi ottenere un finale positivo per il proprio personaggio (l’obiettivo ideale è risparmiare 11 dadi), ma cercando comunque di superare la soglia di difficoltà di volta in volta crescente per non rimanere senza più chance (ogni personaggio può infatti sopportare solo due ferite, la terza è mortale; e la morte è, nell’ottica di questo gioco, un finale negativo). La fortuna ha ruolo importante, perché solo i dadi che risultano in un 5 o un 6 possono essere “messi da parte”. Un ulteriore parametro distinto, la Brutalità, incide su questo equilibrio, rendendo più probabile evitare le ferite ma anche rischiando di condannare il personaggio a un finale comunque negativo; a differenza di quanto discusso finora, l’accumularsi di Brutalità (e della sua controparte, Pietà) dipende esclusivamente dal comportamento del personaggio “nella fiction” e dal giudizio che ne danno gli altri giocatori, e quindi introduce nel sistema di risoluzione e giudizio finale una forte componente fiction=>meccaniche (cosa in questo contesto indubbiamente positiva).
Intravedo però alcune possibili pecche in questa struttura. Una è la mancanza di chiarezza rispetto ad altri possibili conseguenze a breve termine del conflitto, che non siano la ferita: il testo dice che anche in caso di fallimento il personaggio “può comunque essere riuscito nella sua azione ”, ma chi lo decide? Si direbbe, parte il giocatore stesso (che decide come il proprio personaggio viene ferito) e parte i compagni (che narrano chi e come lo trae in salvo), mentre Guerra non sembra prendere parte nella decisione: ma ciò rimane implicito. Qui il rischio è che un protagonista possa prendere una ferita eroica “gratis” nelle ultime fasi del gioco: se arrivo al penultimo turno senza aver subito ferite, e i dadi determinano nell’immediato “solo” il mio ferimento, poiché è solo la terza ferita ad avere conseguenze sono ormai “al sicuro”. A questo punto non avrei più incentivi a far agire il mio personaggio con Brutalità, e mi limiterei a tirare i dadi sperando di ottenere quanti più 5 e 6 possibili, che ovviamente risparmierei tutti. Se invece, per esempio, Guerra avesse facoltà di determinare tutto ciò che non riguarda direttamente la ferita in caso di tiro fallito, allora la minaccia di conseguenze su PNG (che possono aver sviluppato una dimensione affettiva nel corso dei precedenti turni di gioco), sull’esito complessivo della missione bellica o altro potrebbe rendere meno automatica la scelta di mettere da parte dadi. Una soluzione alternativa allo stesso problema, s’intende, è quella di rendere il numero di turni per partita variabile invece che fisso, ma ciò implicherebbe andare a modificare una struttura macroscopica che appare già valida solo per risolvere quello che tutto sommato è un dettaglio, e quindi non credo sarebbe la miglior scelta di design.
Altra possibile pecca riguarda il sistema della Fiducia, un meccanismo ispirato a The Mountain Witch di Timothy Kleinert e derivati (Cold City di Malcolm Craig, il sottosistema della Hx in Apocalypse World di Vincent Baker). I punti Fiducia assegnati ai compagni permettono di tirare dadi aggiuntivi, il che è molto importante nell’economia del gioco, specie a fronte della soglia di difficoltà crescente. Tuttavia, il contraltare, cioè l’unica ragione per non assegnare punti Fiducia a man bassa, è relativamente debole, perché solo quelli assegnati dalla vittima designata all’Infiltrato avranno conseguenze, e anche questo non è certo. Considerato che l’attentato avviene solo alla fine del gioco, e che mettendo da parte dadi nel corso dei vari turni il bersaglio accresce oltretutto la propria probabilità di salvezza, mi pare ovvio che la strategia di gioco ottimale sia quella di abbondare con la Fiducia: più dadi da tirare equivalgono a più dadi messi da parte e una minor probabilità di morte prematura, più dadi messi da parte a un finale più felice per il mio personaggio, e giunti al momento della verità se sono proprio io la vittima designata mi resta comunque almeno un’opportunità di salvarmi la vita; se invece fossi parco con la Fiducia tirerei meno dadi e rischierei quindi un finale triste, per tacere della maggior probabilità di morire comunque anzitempo. Infine, se l’Infiltrato sono io, non ho alcuna ragione meccanica di non elargire Fiducia a tutti: solo il rischio di creare sospetti mi indurrà a limitarmi un po’, se questo avvicina il mio comportamento a quello di tutti gli altri.
Possibili variazioni al sottosistema della Fiducia? Me ne vengono in mente almeno due, posto che rimanga com’è il ruolo dell’Infiltrato (tema che affronterò oltre). Una possibilità è eliminare i dadi-Fiducia, mantenendo solo i punti Fiducia: è una variabile in meno sul numero di dadi tirati, ma i dadi “aiuto” potrebbero comunque esistere, solo in proporzione fissa; e forse se si accettasse l’aiuto di un compagno sarebbe poi obbligatorio dargli il punto di Fiducia. Alla fine del gioco, se l’Infiltrato è il personaggio a cui la vittima designata ha accordato la Fiducia più alta (anche a pari merito!) l’attentato riesce automaticamente, altrimenti fallisce. L’altra possibilità a cui pensavo è cambiare il momento in cui l’attentato avviene: ogni volta che la vittima designata accetta il suo aiuto, è per il killer un’occasione di colpire, se decide di sfruttarla. In tal caso, l’esito andrebbe comunque determinato con i dadi, che però dovrebbero indicare separatamente anche se l’Infiltrato viene scoperto dagli altri compagni o meno.
Segnalo, infine, che non sono del tutto convinto da ogni singola voce della tabella dei finali. In particolare, che significa “in totale balia di Guerra, che potrà usarlo per il suo trastullo”? È colorito, ma non esattamente molto significativo. Si vuol forse lasciar intendere che, per esortare gli altri giocatori a mettere da parte dadi, il giocatore Guerra deve minacciarli di pesanti ritorsioni psicologiche qualora non lo facciano? Sono convinto che si possano progettare incentivi migliori, o quantomeno meglio espressi.

La gestione del gioco

A me sembra, comunque, che il vero cuore procedurale del gioco non stia nelle meccaniche fin qui esplicitate, bensì in quanto descritto (troppo affrettatamente) nel paragrafo “Le Scene e il Ruolo di Guerra ” e nell’incipit del successivo: in altre parole, in come viene condotto il gioco e come la “fiction” interagisce con le meccaniche, che poi hanno un solo “punto d’innesco”: «Guerra deve porre il personaggio di fronte a una sfida, una difficoltà o una scelta difficile.» Ma questa descrizione del punto d’innesco è fin troppo vaga, a parer mio, specie per assenza di contesto ulteriore.
La principale domanda a cui il testo non dà risposta è come il potere di ciascuno dei giocatori-protagonisti di “offrirsi volontari” per affrontare la sfida (di per sé un’idea interessante per come approssima un meccanismo narrativo e psicologico centrale a un racconto di cameratismo militare) interagisca, nella pratica, con l’inquadramento delle scene. Guerra è forse tenuto a porre esclusivamente sfide o problemi che riguardano tutto il “gruppo”, e che ciascuno dei personaggi che ancora non hanno agito nel Turno in corso possa offrirsi di affrontare? Se è così, si pongono limiti precisi alla tipologia di scene che Guerra può inquadrare, e se mi trovassi in questo ruolo sentirei decisamente il bisogno di indicazioni più dettagliate su come svolgerlo. O forse, questo “offrirsi” può o deve avvenire “out of character”, a priori, e poi Guerra ne tiene conto per scegliere quali scene inquadrare?
Altre domande che, come Guerra, sicuramente mi porrei riguardano il contesto presunto delle scene (solo momenti di operazioni militari, o anche “dietro le quinte” della guerra in corso?), le possibilità di suddivisione del turno in più scene (“strettamente connesse” può significare tutto o niente), la tipologia di problemi o ostacoli da contrapporre ai legionari, ecc. E come si gestisce un disaccordo tra due giocatori-legionari, nel momento in cui vogliano entrambi offrirsi? Non dubito che per alcune di queste domande la risposta giusta sia “fa’ come ti senti”, e questa è una risposta del tutto valida; tuttavia, sono certo che per almeno alcuni di questi fattori l’autore avesse in mente delle risposte molto precise, che però non ha inserito nel testo. Il problema, in altri termini, è che per un gioco così largamente affidato alla direzione di un singolo giocatore occorrono indicazioni su come svolgere questo ruolo, in assenza delle quali il documento è utile solo all’autore stesso per condurre un playtest “interno”, ma non comunica la sua visione del gioco a un lettore esterno come me.

Il ruolo dell’Infiltrato

Mi sembra che “l’anello debole” nell’attuale impianto del gioco, per quanto riguarda la complessità del contenuto e lo sviluppo psicologico dei personaggi, stia nel ruolo dell’Infiltrato. Potenzialmente questo sarebbe il personaggio per certi versi più interessante: che cosa mai può passare per la mente di un individuo che dedica sei anni a guadagnarsi la fiducia di un altro, esclusivamente con il proposito di ucciderlo? Una storia potenzialmente intrigantissima che il testo, invece, liquida in una riga e mezzo: «Uno di loro è un infiltrato, mandato per uccidere proprio uno degli altri personaggi, reo di aver abbandonato la causa .» Quale causa? Una qualunque, magari?
La verità è che, per come è strutturato il gioco, quello dell’Infiltrato è un “ruolo tecnico”, funzionale a dare un senso (pur con i limiti di cui già ho parlato) alla meccanica della Fiducia che, invece, negli altri giochi da cui è tratta si regge su circostanze per cui tutti potrebbero tradire tutti in ogni momento. L’ispirazione sorge dagli ingredienti del concorso (la “mela marcia”), ma non è ben sfruttata. Per come stanno le cose ora, l’Infiltrato è privo di identità: “è probabile” che le sue Eredità false e di copertura, il suo Segreto (la parte più intima di ogni altro personaggio) viene sostituito dalla scelta del bersaglio… bersaglio che, fra l’altro, è individuato praticamente a caso. Qualsiasi relazione indiretta sussista tra assassino e vittima designata dovrà essere improvvisata a posteriori, e oltretutto sempre nell’ignoranza del Segreto. L’evento insieme meno verosimile e più caratterizzante dell’intera vicenda (ho già sottolineato che si tratta di un inganno lungo sei anni?) rimane completamente privo di movente.
Sarebbe molto più interessante, credo, se la scelta del bersaglio e il movente dell’Infiltrato si legassero fin dall’inizio alla rete di Segreti presente. Per esempio, posso ipotizzare una soluzione in cui non si sorteggia l’Infiltrato con le carte, ma piuttosto dopo aver ricevuto i Segreti di tutti Guerra si prende una breve pausa di riflessione; se alcuni dei Segreti hanno un legame tematico con altri, Guerra può a questo punto passare bigliettini ad alcuni giocatori… Per esempio, se uno dei protagonisti avesse il Segreto “ex-membro del partito nazista” e un altro il Segreto “fuggito da un campo di concentramento”, Guerra potrebbe passare a quest’ultimo il messaggio: «Fra di voi c’è un nazista. Vuoi vendicarti?»; solo in caso di risposta affermativa, Guerra comunicherebbe al giocatore in questione l’identità del suo bersaglio (s’intende che Guerra dovrebbe avere uno scambio di bigliettini bianchi con tutti i giocatori ai quali non ha niente da comunicare). Con questo sistema potrebbero esserci contemporaneamente più “infiltrati” con bersagli diversi, o anche nessuno: non importa, perché l’equilibrio del gioco si regge sul sospetto. Potrebbe perfino esserci un infiltrato che ha per bersaglio un altro infiltrato che ha per bersaglio un terzo protagonista. Ovviamente questa è solo una proposta di variante costruita frettolosamente, ma dovrebbe rendere l’idea di ciò che intendo quando parlo di un “movente” per l’attentato finale.

In conclusione

Legione straniera è una raccolta di appunti ancora incompleti per un gioco che si prospetta interessante e avvincente, ma in cui sospetto alcune debolezze che dovranno essere sanate nel corso delle prossime fasi dello sviluppo. Consiglio a Iacopo, se non lo sta già facendo, di mettersi al tavolo e giocare, sottoponendo alla prova dei fatti questi miei dubbi o eventuali altri. Quando avrà verificato ed eventualmente corretto le meccaniche, potrà dedicarsi a redigere una bozza più estesa per il playtest esterno, in cui darà indicazioni più precise e dettagliate su come svolgere il compito di Guerra. Il tutto nell’ottica di arrivare, prima o poi, a un prodotto editoriale dalla presentazione meno succinta che dia spazio all’ambientazione storica, con un taglio personale ma senza la pretesa di esaurire l’argomento. Tutte queste cose suppongo però che l’autore, cui certo non fa difetto l’esperienza, le sappia già.

Monday, June 10, 2013

Recensione Game Chef 2013: “Io, me Stesso, me”, di Lavinia Fantini

Io, me stesso, me è un “gioco di ruolo in solitario”. Non però nell’accezione in cui lo erano un tempo le “avventure in solitario” per Dungeons & Dragons, Tunnels & Trolls o Uno sguardo nel buio, affini al libro-gioco e al videogioco single-player. Il design proposto da Lavinia Fantini si inquadra piuttosto in una nuova tradizione di riscoperta del gioco solitario promossa dalla RPG Solitaire Challenge (2011) patrocinata da Emily Care Boss: si tratta sostanzialmente di fornire linee guida e strumenti, talvolta una scaletta che il giocatore possa seguire nel fantasticare per conto proprio, costruendo storie nella propria immaginazione.
Come recensore mi sono trovato in difficoltà, perché se da un lato ho letto le istruzioni di alcuni giochi appartenenti a questo filone (Relic di Ron Edwards, Map of the House di Jackson Tegu, Teen Witch di Joe Mcdaldno) tuttavia non li ho mai provati in prima persona. La mia esperienza credo più simile è stata quella con How to Host a Dungeon di Tony Dowler, un gioco di costruzione procedurale di una mappa che, in aggiunta, produce anche una sorta di narrazione (se tale vogliamo definire una semplice cronologia di avvenimenti): ciò mi dà perlomeno un’idea del ruolo che un gioco “in solitario” potrebbe occupare nella mia vita, ma con How to Host a Dungeon stiamo pur sempre parlando di un’attività basata sulla manipolazione creativa di oggetti concreti, paragonabile al giocare con i Lego.
Siccome, insomma, non mi sentivo sufficientemente esperto in questa tipologia di gioco da poter formulare un giudizio alla lettura, ho ritenuto mio dovere tentare un playtest. Non è stata una decisione difficile a prendersi: dei quattro giochi che mi sono stati sottoposti per recensirli, questo è proprio quello che nel complesso ho trovato più attraente, e che più ero curioso di provare. Purtroppo la cosa si è svolta in condizioni non ottimali: vi ho potuto dedicare non più di un’ora di tempo, durante la quale oltretutto si sono verificate alcune interruzioni, e sentendomi sotto pressione per una serie di piccole scadenze (fra cui quella di queste recensioni, con cui sono comunque in ritardo) non sono riuscito a raggiungere quello stato di relax, di tranquillità contemplativa che mi sono convinto questo gioco richieda. L’impressione a cui sono pervenuto, comunque, è che purtroppo Io, me stesso, me, nel suo stato attuale, “non funzioni” per me: con ciò non sono tuttavia in grado di concludere che non funzionerebbe per altri. Anzi, a essere sincero non posso neppure escludere del tutto che avrebbe funzionato anche per me in differenti condizioni, ma mi permetto di essere un po’ scettico a riguardo: diciamo che il verificarsi di tali condizioni è già abbastanza improbabile di per sé, ma soprattutto che la ragione per cui mi servirebbe così tanta tranquillità per riuscire forse a giocare è che l’attività base di questo gioco mi risulta molto impegnativa, perfino faticosa.
Comunque, questa è a tutti gli effetti una recensione di playtest, per quanto parziale: nel seguito di questo articolo racconterò dunque la mia breve esperienza con gli strumenti forniti da questo design, i punti di maggior attrazione che esercitavano su di me e le difficoltà che ho trovato nel tentativo di utilizzarli.

La prima impressione

La premessa di un defunto che si guarda alle spalle, verso una vita vissuta che non ricorda distintamente, mi sembra più importante per il ruolo che ha avuto nel processo creativo dell’autrice, dandole lo spunto iniziale, che non come influenza sullo svolgimento effettivo del gioco: qui a farla da protagonista è chiaramente la prospettiva psicologica, la riflessione sul comportamento umano in vita, fuori da ogni cornice teleologica. Il vero fulcro del gioco, da cui il titolo, è la scomposizione del comportamento nei tre aspetti della psiche qui chiamati “guide” (Es, Ego e Super-ego). Mi sembra onesto dire che tutto si costruisce attorno a questa idea di ipotizzare le conseguenze su uno stesso scenario quando lo si affronta con l’una o con l’altra faccia della stessa personalità. Ammetto che per me non è tanto questa scomposizione, in sé, ad essere attraente, quanto l’idea che essa possa riflettersi sul tono complessivo di una scena: il mio dettaglio preferito nel testo sono le indicazioni di “regia” date per ciascuna delle tre guide (colori, luci, suoni, odori), e forse è stato questo in particolare a stuzzicarmi a provare.
La conclusione del gioco è comunque una scelta “morale” sul destino dopo la morte. Di primo acchito, sembra un buon finale perché lasciato aperto all’interpretazione: si invita il giocatore a scegliere qual è la sorte “moralmente giusta” per il protagonista, lasciandogli però pieno arbitrio nel definire la propria morale. Forse alla lettura non mi ha fatto l’effetto di uno di quegli aspetti intriganti per cui provare il gioco, ma almeno mi è sembrato qualcosa di adeguato e non ingombrante: un finale “scusa”, magari, ma più che valido in questo ruolo.

Actual play, problema 1: io, me stesso e i miei ingombranti ricordi

Per cominciare, ho “creato il personaggio”, attenendomi alla scaletta e agli esempi dati. In effetti, ho provato una sensazione di troppa libertà a questo punto: da dove iniziare? Perché preferire un protagonista con certi tratti piuttosto che altri? Qual è, insomma, la ricetta segreta di un protagonista “interessante”? Ho fatto ricorso al mio default, cioè l’esperienza diretta di vita, creando un protagonista, Mario, che era praticamente una plausibile sovrapposizione di caratteristiche tra due miei amici con poco in comune fra loro, più un dettaglio che mi è passato per la mente per caso.
Poi mi sono scritto tre “frammenti”. Ho riletto più volte il paragrafo a riguardo e gli esempi, alla ricerca di consigli, di “trucchi” nascosti, ma ho trovato meno indicazioni di quanto sperassi. O, forse, mi stavo preoccupando troppo, quando invece qualsiasi cosa sarebbe andata bene? Ho tratto tre episodi tutti dalla mia esperienza diretta, ma forse questa non è stata necessariamente una buona idea, come si vedrà. Poi mi sono chiesto da quale cominciare, e (presagendo che probabilmente non sarei andato oltre il primo) ho puntato su quello che mi sembrava più ricco di potenzialità di conflitto; fra l’altro, un avvenimento abbastanza recente della mia vita: andare a trovare a casa un’amica di lunga data per parlare del nostro rapporto dopo un litigio al telefono.
Ho scelto l’Ego come prima Guida sia perché mi sembrava la scelta più adatta alla situazione, sia perché (come consiglia il testo) mi sembra rappresentare un aspetto della psiche con cui personalmente mi trovo a mio agio nella vita reale: in breve, in questo contesto viene descritto come una tendenza verso il compromesso, una pulsione di mediazione tra sé e gli altri. Determino casualmente che l’altra Guida attraverso la medesima situazione sarà poi il Super-ego.
Per questa scena creo anche due personaggi (l’amica, Marcella, e il suo fidanzato che convive con lei), appuntandomene per iscritto le caratteristiche salienti. Il testo non prescrive espressamente di scriverli, ma ritengo di avere la necessità di fissare qualcosa al di fuori della mia testa così da impedirmi di trasformare involontariamente i personaggi in corso d’opera: scrivo, insomma, per meglio riuscire a conservare la loro integrità. Compio qui quello che a breve si rivelerà un errore, ovvero partire nella definizione dei personaggi dai miei amici reali presenti in quella specifica situazione: anche se mi impongo di differenziarli esplicitamente da quelle persone almeno in qualcosa, ormai ho commesso l’errore di visualizzarli coi loro volti, e non riesco più a tornare indietro.
Quando inizio a immaginarmi la scena (se è possibile, in un esercizio mentale come questo, determinare il momento preciso in cui ho iniziato a immaginare la scena), l’ambiente è la casa della mia vera amica. E non potrebbe essere altro posto: ero partito da un mio ricordo per decidere la situazione-spunto, giusto? E il mio ricordo dell’evento reale corrispondente è inestricabilmente legato al luogo, o almeno all’impressione soggettiva del luogo; come del resto ogni altro mio ricordo. Per questo sopra ho scritto che non è stata una buona idea scegliere come “frammenti” degli episodi vissuti in prima persona: sono convinto che se fossi partito da problemi di amici o conoscenti, da situazioni che conosco solo per sentito dire, allora le cose sarebbero andate in modo diverso.
Comunque, faccio appello alle indicazioni “di regia” che il testo suggerisce per la mia Guida attuale: intervengo sulla mia immagine mentale della scena focalizzandomi sulle luci, sugli odori, sui suoni. Attraverso questo procedimento decido che è estate, fa caldo, si sentono frinire le cicale: col senno di poi, mi accorgo ora che questi sono comunque ricordi sensoriali legati a quel luogo reale, ma non a quello specifico episodio (che invece è avvenuto in un’altra stagione). Quindi sono in qualche modo riuscito a differenziare la scena immaginaria dal mio vero ricordo: sto giocando. Decido che Mario, sotto la guida del suo Io conciliatore, si presenta alla porta con del gelato. «Ah-ah!», penso, «Io non avevo del gelato con me quella volta , e ciò significa che sto riuscendo a far funzionare il gioco!», non rendendomi conto lì per lì che questo è indice di una difficoltà abbastanza grave, invece: in pratica, se ero tutto concentrato sul rendere in qualche modo la scena diversa dal mio ricordo, ciò significa che stavo comunque ancora basandomi sui miei ricordi, invece che immaginare quelli del mio protagonista.
Più o meno a questo punto, mi accorgo che non sto visualizzando Mario sulla porta con la confezione di gelato (avevo già più o meno definito l’aspetto di Mario, o meglio, avevo più o meno preso atto che lo immaginavo simile al mio amico A.): sto visualizzando me! E questa infatti è un’altra trappola da cui non sono più riuscito a sganciarmi, per quanto lo volessi.

Actual play, problema 2: io, abbandonato a me stesso

Continuo comunque a cercare d’immaginare la scena, sempre sforzandomi di renderla diversa da come la ricordo davvero. Mi interrompo per ridare un’occhiata al manuale: le scene devono sempre arrivare a un punto di crisi o di conflitto, giusto? Ah, no, non necessariamente: possono anche arrivare a una silenziosa frustrazione o qualcosa del genere. Comunque, penso, diamogli un po’ di filo da torcere, a questo vigliacco del mio Ego conciliatore! Immagino quindi che per qualche minuto la conversazione volga sul gelato, ma poi Marcella si rivolga a me/Mario a muso duro dicendo: «Credevo che fossi qui per parlare di qualcos’altro!»
Mi rendo conto, però, che a questo punto anche la mia capacità di sostenere, diciamo così, il mio “spazio immaginato individuale” sta vacillando. Dopo questa battuta, non riesco a immaginare il dialogo parola per parola (o non ne trovo la voglia), ma sono portato a riassumere, nella mia testa, la scena, a immaginarla velocizzata. Qualcosa tipo (più o meno testualmente): “allora il protagonista si mostra mortificato, Marcella abbassa leggermente i toni, cominciano a parlare dell’argomento, girandoci intorno, vanno avanti così per più di un’ora ma è chiaro che nessuno dei due riesce davvero a capire il punto di vista dell’altro. Rientra il di lei ragazzo, suggerisce che il protagonista si trattenga per cena e lui non osa rifiutare, ma seguono ore di imbarazzati silenzi e totale incomunicabilità.” Mi sembra che possa andare come conclusione della scena. Nel frattempo, sul pezzo di carta che avevo davanti a me ho annotato sparse parole come: imbarazzo, silenzio pesante, sentirmi a disagio.
A questo punto, dovrei “riprovare” la situazione sotto la guida del mio Super-ego… pardon, del Super-ego del protagonista, per vedere in che cosa sarà diversa. Ma mi trovo in difficoltà su più fronti. Innanzitutto, sono in difficoltà a modificare la “regia” (l’aspetto sensoriale) della location per adeguarlo alla giuda: ora che ho stabilito che è estate e si sentono le cicale, quanto è lecito cambiare di questo? Ora che mi trovo a raccontare la mia esperienza a mente fredda, mi vengono in mente molte soluzioni anche interessanti, ma lì per lì è chiaro che stava subentrando in me la stanchezza. Sono già alla paralisi mentale, non riesco a decidere come il Super-ego mi guiderebbe a agire: umiliando me stesso e dando ragione senza riserve alla mia amica, o mettendo lei sulla lista di quelli che hanno torto e radicandomi nella mia posizione?
In realtà, è chiaro che non c’è modo di sbloccare la questione senza conoscere il contenuto esatto del diverbio che i due personaggi hanno avuto in precedenza. E questo spiega anche la mia fatica e difficoltà a soffermarmi sui dialoghi nella prima versione della scena: io non sapevo per cosa i due avessero litigato, non l’avevo mai deciso! Il default più spontaneo sarebbe forse: per lo stesso motivo per cui io nella mia vita reale ebbi una discussione una volta con quella certa mia amica; ma questo, per fortuna, il background di Mario, completamente diverso dal mio, lo rendeva impossibile. Dico “per fortuna” perché sono abbastanza convinto che l’intendo dell’autrice di questo gioco non sia mai stato quello di farmi affrontare una improvvisata sessione di auto-terapia, e quindi se avessi continuato in quella direzione avrebbe voluto dire che stavo sbagliando qualcosa.
Una cosa di cui sono certo è che in un gioco con altri giocatori vi sarebbero stati abbastanza strumenti per far fronte a questo problema, diciamo così, “di vuoto di contenuti” da renderlo a tutti gli effetti un non-problema. Per esempio, se la medesima scena fosse stata giocata da più giocatori, chi in quel momento interpretava Marcella avrebbe potuto, sempre parlando nel personaggio, improvvisare delle informazioni sul litigio; io avrei preso spunto da quelle informazioni e automaticamente vi avrei aggiunto del mio, e così via: coinvolgere altre persone in un simile processo lo rende più facile. Oppure, qualunque giocatore avrebbe potuto interrompere e, come suggerimento fuori personaggio, dire qualcosa sul litigio; forse avremmo, nella pratica, riavvolto il tempo per chiederci che cosa fosse accaduto prima. In quest’ultimo caso, è importante anche osservare che lo spazio immaginato condiviso fra più giocatori (insomma, la conversazione) siccome siamo abituati a maneggiarlo è elastico e resistente: se la conversazione “torna indietro nel tempo” sugli antecedenti dei fatti, tuttavia non siamo confusi su cosa avviene quando, e se anche volano suggerimenti a destra e a manca, tuttavia raramente abbiamo dubbi di legittimità su cosa è da considerarsi “accaduto” rispetto a cosa era solo un’ipotesi.
Al contrario, nel gioco in solitario ogni problema torna nuovo e bisogna inventarne una soluzione. E mantenere l’integrità complessiva dello spazio immaginato è già un esercizio difficile. Il problema è di convalida, di conferma, di distinzione tra pensiero e pensiero: come tengo separata ogni altra cosa che mi attraversa la testa da ciò che sto immaginando specificamente come scena? Soprattutto i molti pensieri che hanno comunque a che vedere con l’esercizio in sé, o con la scena stessa. Le diverse versioni, o possibilità, immaginate in simultanea. Il tornare indietro con la mente, appunto, a specificare che cosa era avvenuto prima. Difficile, insomma, orientare il mio cervello a immaginare in un’ordinata sequenza cronologica; i miei pensieri sono in genere un caos che riesce ad essere ordinato solo dall’atto dell’espressione all’esterno, mediante il linguaggio parlato (o scritto). Forse il punto è che Io, me stesso, me somiglia un po’ troppo nelle sue strutture a un gioco di ruolo per più persone, con la sola differenza di essere per una?
Fatto sta che prima di completare il secondo “ciac” della scena ho abbandonato l’esercizio, alquanto affaticato.

Soluzioni?

L’unica cosa che mi viene in mente è la possibilità di guidare più fortemente il giocatore. È possibile (anche se non sono certo che questa sia la sola fonte di problemi) che ora come ora sia tutto fin troppo libero. Forse il gioco beneficerebbe di una presenza più forte, più “interventista” del game designer: del diventare un dialogo tra autore e giocatore, invece che il giocatore che tenta di dialogare con sé stesso.
Intanto, il segreto della sua giocabilità potrebbe essere in una “giusta” selezione del personaggio protagonista, dei frammenti di memoria, dei comprimari; selezione per la quale occorrono allora linee guida più stringenti. In realtà, forse a questo punto dello sviluppo l’autrice stessa non ha ancora le idee al cento per cento chiare su quale alchimia di elementi sia necessaria a far funzionare l’esperienza di gioco, il che significa che deve innanzitutto assicurarsi di averla trovata: dopodiché ci sarà ancora del lavoro di design in senso stretto da fare, vale a dire distillare questa alchimia in suggerimenti, esempi o addirittura regole che non dico che garantiscano (questo sarebbe presuntuoso e impossibile), ma che ne rendano il più possibile probabile il verificarsi.
Ho detto anche “regole” perché, personalmente, mi troverei di sicuro più a mio agio con qualche cosa tipo degli “oracoli”: degli insiemi di elementi predeterminati da cui in qualche modo attingere, combinandoli, così da utilizzare la mia esperienza individuale solo come collante, e non come punto di partenza unico. Forse mi sarebbe anche d’aiuto se un maggior numero di componenti del gioco, per esempio i personaggi, fossero sottoposti a regole che obbligano a metterli per iscritto (come avviene per i frammenti) e, in più, indicano una forma specifica in cui scriverli. In definitiva, insomma, forse quello che sto cercando, o che per gusto personale mi piacerebbe vedere aggiunto a questo gioco, sono dei fattori casuali ed esterni a me (fossero anche solo delle macchie di Rorschach) con cui confrontarmi per ottenere una qualche forma di “straniamento” o di “auto-alienazione” che mi aiuti a dare corpo e struttura autonomi alle mie fantasie.

In conclusione

Nel breve e incompleto “esperimento” che ne ho fatto, il sistema di gioco di Io, me stesso, me non ha granché funzionato per me. Mi sono fatto così l’idea che sia un’attività impegnativa, che richiede pertanto condizioni molto favorevoli per essere condotta con successo, e che forse mi chieda più di quanto non mi dia in cambio, perché in qualche modo mi sono sentito “lasciato solo” dal designer del gioco, invece di provare la sensazione di interagire indirettamente con lei attraverso le dinamiche e gli elementi da lei progettati.
Con ciò non sono tuttavia disposto a concludere in maniera definitiva che l’esperienza non avrebbe potuto funzionare per me date circostanze differenti. E, a maggior ragione, non mi sento di azzardare alcun ragionevole giudizio sulla sua fruibilità da parte di altri! È davvero ancora tutto da verificare.
Debbo quindi concludere questa recensione con più dubbi che non certezze. La sola cosa di cui sono certo è che consiglio a Lavinia di non demordere, in nessun caso, ma invece di provare e far giocare il gioco. Spero che il resoconto del mio tentativo, seppur breve e frammentario, le sia di qualche utilità: e casomai i miei dubbi dovessero risuonare con quelli espressi prima o dopo di me anche da altri, mi auguro di avere, nel mio brancolare a tentoni nel buio, indicato possibili direzioni di ricerca e sviluppo e non meri vicoli ciechi.
È un territorio quasi vergine, questo, e perciò mi sento di dire: brava, eccezionalmente brava anche solo per aver provato!

Friday, June 7, 2013

Game Chef: dicono di "Lift Girl - La ragazza dell'ascensore", parte #3

L'opinione di Daniele Di Rubbo:
Questo gioco ha una premessa davvero intrigante: la vita vista da una inserviente dell’ascensore di un grosso grattacielo, con tanto di centro commerciale, e il modo in cui viene messa in gioco questa premessa è davvero interessante. Il gioco rompe degli schemi, ed è una cosa che giudico sempre in maniera positiva. Anche l’uso dei tarocchi, sia nelle meccaniche che come simbologia, mi sembra riuscito ed evocativo. La presenza degli elementi di gioco: delle schede, del tabellone, delle domande e delle pagine di regole, che sono praticamente modulari, dovrebbe facilitarne la fruibilità al tavolo, il che è di certo un pregio.

L’esposizione, specie nella parte iniziale, mi pare un po’ confusa. Fortunatamente la componentistica e le regole spiegate più avanti mi sembrano più chiare. La parte fondamentale del gioco sono le Scenette: queste, secondo il mio modesto parere, devono svolgersi con interazioni e mettendo carne al fuoco perché il gioco riesca; in una prossima stesura mi aspetto che questa parte riceva più attenzione. Una nota a margine: consiglio a Rafu di scrivere da qualche parte a cosa corrispondono i semi delle carte francesi in termini di tarocchi, perché non è da tutti saperlo, e siccome in gioco si usano dei tarocchi, ma sul tabellone sono segnati i semi delle carte francesi, questo potrebbe essere un problema.

Il tema è usato con originalità, ci sono anche due ingredienti dichiarati, che vengono usati negli scenari aggiuntivi al gioco di base. Qui non mi formalizzerei troppo: la natura degli ingredienti di quest’anno era mobile e volutamente intepretabile, per cui, nello stile delle altre recensioni che ho fatto, direi che ci siamo. In bocca al lupo allo chef!

Game Chef: dicono di "Lift Girl - La ragazza dell'ascensore", parte #2

Nuovo "guest post", questa volta di Andrea Vigiak, Ariele Agostini e Davide Losito:

IL GIUDIZIO

6 Luglio del 2013
In uno sperduto commissariato di Polizia...

- Serata moscia, appuntato 2. Dobbiamo preparare un rapporto per il commissario D.
- No, ti prego! Non di nuovo!
- Facciamo un riepilogo, che è meglio.

A scrivere le nostre impressioni saremo qui Andrea e Ariele (scambiandoci di ruolo continuamente tra poliziotto buono e poliziotto cattivo), a cui farà seguito Davide (nel ruolo del commissario)

[…]

Caso n.° 4: Manzo Raffaele, detto “Rafu”. Un recidivo latitante che ora sembra essersi interessato ai Grandi Magazzini.
(A. Macchemminchia di nome è, “Rafu”?)
(A. Dice che l'ha sentito chiamare così un'ascensorista...)
(A. Macchemminchia è un'ascensorista?)
(A. Siediti che ti spiego...)
 
A. Allora, parlami di questo affresco sociale che mi hai decantato
A. Beh, intanto sento davvero di dovermi complimentare per la qualità editoriale del prodotto: ben impaginato, con una seconda di copertina già degna di una pubblicazione, e una bella visione grafica in generale.
A. Sì, ho capito, ma il gioco?
A. Il gioco è uno spaccato di vite quotidiane che incroceranno il loro cammino con una persona eccezionale.
A. Un'ascensorista?
A. E perché no?
A. Perché mi sembra tutto un po' troppo incentrato sull'ascensorista! Deduce, immagina, decide i piani (e quindi chi gioca) e quando finisce il gioco: siamo un po' tutti delle comparse nel grande schema della vita... di un'ascensorista?
A. Eh.... sì. Ma mi sembra limitativo criticarlo per questo: guarda per esempio che belle le serie di domande “Lato A” e “Lato B”, o la meccanica del definire un dettaglio del personaggio di un altro...
A. Certo, aiutano a fare un'istantanea, una rapida descrizione dei comprimari, che necessariamente rimarranno abbozzati tramite brevi, intense sensazioni. Ma non rischia ogni personaggio di rimanere un po' troppo fine a se' stesso? O meglio, funzionale all'ascensorista?
A. Ok, l'ascensorista è il fulcro del gioco. Siamo d'accordo. Ma...
A. Tra l'altro, decidendo quali Chiamate accettare di fatto decide quali personaggi (e peggio, quali giocatori) approfondire e coinvolgere.
A. Questo in effetti è un problema: ma alla fine mi stai citando soltanto questo, come problema, anche se in varie salse: davvero non ci hai trovato altri difetti?
A. In realtà, a sensazione direi di no: se vuoi è discutibile la presenza degli ingredienti, ma l'icona della variante di gioco “La Fata d'Inverno” è molto azzeccata, e...
A. ...e introduce quello che probabilmente è il potenziale maggiore per il gioco, con più interazione tra tutti i giocatori e non più la sensazione di osservare solo delle comparse. Si, sono d'accordo con te.
A. Aggiunge anche una finalità nel ruolo dell'ascensorista completando maggiormente il gioco, oltre a legare almeno in parte l'aspetto esoterico dei tarocchi al resto del gioco.
A. Tutto qui, allora?
A. Vorrai mica che mi metta a parlare dei telefonini, vero?
A. Ok...

D. Protocollo pw98-ffx.
Si nota che il soggetto ha fatto un buon lavoro, anche di impaginazione e preparazione, come è emerso dal rapporto dei colleghi.
Percepisco anche una serie di riferimenti al film Four Rooms e questo non può che piacermi.
Purtroppo mi riesce difficile, senza le dovute prove sul campo, immaginarmi come una partita possa andare al di là del “raccontiamo la vita dei personaggi” e anzi c'è il rischio che rimanga una mera descrizione delle comparse.
Il meccanismo sembra girare bene, bisognerebbe capire quanto il gioco produca contenuti interessanti e quanti invece finiscono persi nel nulla.
Molto suggestiva la variante della Fata d'Inverno, ma si sa... io ho gli elfi nell'armadio. E anche sotto al letto. E hanno fame.
Si sospetta il reato di voyerismo ascensoristico. Occorrono più prove.

Thursday, June 6, 2013

Recensione Game Chef 2013: “Tu mi turbi”, di M. Soriani e M. Bulgarelli

Tu mi turbi è visibilmente figlio della stessa “scuola” di design da cui proviene Novanta minuti di Matteo Turini, gioco vincitore del Game Chef 2012: tratta di conflitti emotivamente molto intensi che potrebbero verificarsi nella vita quotidiana di chiunque, con una propensione verso le emozioni negative e senza il filtro del fantastico (mi è capitato di sentire dei detrattori etichettare questo “genere”, impropriamente, come “kitchen sink realism”); utilizza una meccanica a punti per determinare il finale del gioco in maniera parzialmente indipendente dalla volontà dei giocatori (una consuetudine di design che discende da La mia vita col padrone di Paul Czege) e assegna questi punti come conseguenza del comportamento dei giocatori durante il cosiddetto “gioco libero” (idea che ha un precedente e forse la sua origine in Bliss Stage di Ben Lehman). Il retroterra è evidentemente l’incontro tra i figli di The Forge e la scena freeform scandinava (il collettivo Vi åker jeep, la convention danese Fastaval, ecc.), quest’ultima divulgata in Italia dalle edizioni “in scatola” di alcuni celebri scenari uscite sotto etichetta Narrattiva; ma solo il tempo potrà dirci se questo fermento rimarrà solo una nota a margine di una nota a margine (l’infatuazione di alcuni game designer della East Coast statunitense per gli ambienti di Fastaval e Knutepunkt) o se rappresenterà l’inizio di una vera e propria nuova “scuola” di design in lingua italiana.
Nel complesso, il mio giudizio su Tu mi turbi è decisamente positivo. L’elaborato che mi è stato chiesto di recensire è professionale sia nella forma, sia nei contenuti, specie a fronte degli stretti limiti di tempo, e spicca anche in una competizione il cui livello medio di qualità è, mi pare, assai elevato. Questo e non altro è il motivo per cui, nelle righe che seguiranno, mi concentrerò soprattutto sui difetti, o più precisamente su quelli che individuo come i potenziali difetti del gioco. Farò questo nella speranza che le mie critiche siano utili agli autori in vista delle prossime fasi di sviluppo del prodotto, che non dubito potrà alla fine risultare assai pregevole.
Mi scuso se questa non è e non ha potuto essere una recensione basata su una prova pratica. I dubbi e le obiezioni che sollevo nascono quindi dalla mia esperienza generale e di altri giochi in qualche modo affini (fra cui buona parte di quelli che gli autori elencano come fonti d’ispirazione). Ben venga, dunque, se le mie perplessità dovessero un giorno essere messe a tacere dai fatti, come del resto spesso accade.

Designed for bleed?

La più fondamentale delle mie perplessità si articola in due parti: riguarda il provare emozioni come trigger meccanico e la maniera in cui ciò interagisce con l’esilità dei personaggi.
Cercherò di spiegarmi meglio… La meccanica centrale di Tu mi turbi è che quando uno dei giocatori ritiene di stare provando un’emozione da una certa gamma, o ritiene che il proprio personaggio starebbe provando una di quelle emozioni, interviene ad avanzare di un punto uno dei tre contatori. La principale differenza rispetto a meccanismi simili esistenti in altri giochi (il summenzionato Bliss Stage, S/lay w/Me di Ron Edwards, ecc.) è che di solito a fungere da trigger sono degli eventi immaginati estrinseci, tali che ogni giocatore al tavolo è nella posizione di identificarli quando si verificano, mentre in questo caso sono (prevalentemente) dei moti interiori, cosicché ciascuno è arbitro unico dei propri. Oppure, se prendiamo la scelta se attribuire un punto d’Amore o Pietà in Kagematsu di Danielle Lewon, che è quanto di più simile mi venga in mente a livello di sottigliezza, essa è appunto una scelta che si svolge relativamente a freddo, in un interludio tra scena e scena, consentendo alla giocatrice di concentrarsi esclusivamente su questo giudizio; in Tu mi turbi, invece, i giocatori sono chiamati a esprimere giudizi del genere a scena aperta.
Inoltre, l’uso del meccanismo deve obbligatoriamente avvenire una volta per scena: finché un giocatore non interviene sui contatori, la scena non può chiudersi. Ciò a mio avviso mette i giocatori sotto una certa pressione esplicita di “dover provare” quelle emozioni; o, meglio, di riuscire a individuarle nella fiction, direttamente o indirettamente. Sebbene (fatto molto positivo) ciascun giocatore abbia una scelta fra due sole possibilità, la gamma di emozioni che un dato scenario associa a ciascun contatore è pur sempre ampia e complessa abbastanza da non poter escludere del tutto l’insorgere di dubbi: «Sto soddisfacendo una sua esigenza, o mi sta solo usando?», potrebbe per esempio domandarsi il giocatore dell’Amante nel primo scenario, chiedendosi di conseguenza se avanzare uno dei suoi due contatori e quale.
La prima componente della mia perplessità, quindi, è il timore che i giocatori si trovino a dover dedicare un’eccessiva quantità di attenzione a “monitorarsi” mentre giocano, a chiedersi quali emozioni stanno provando, invece di “giocare e basta”. Questo costante obbligo di auto-consapevolezza non rischierà di trasformarsi in un’inibizione? Un espediente per aggirare in parte il problema è forse il concentrarsi sulle esplicite esternazioni di sentimento, che due partecipanti su tre possono articolare anche mediante “monologo interiore” e commenti che “appartengono” al personaggio anche quando provenienti da fuori scena; ma qui appunto emerge l’altro mio fattore di perplessità: i personaggi esili.
Nello scenario 1, “Lui” è “un uomo come tanti”, “Lei” è “una donna come tante”; nello scenario 2 abbiamo “una ragazza come tante” e “un ragazzo come tanti”. Si invitano i giocatori a definire liberamente i loro personaggi e la situazione in cui si muovono, ma le domande-guida proposte in ciascuno scenario sono volte esclusivamente a specificare i particolari della loro relazione a triangolo. Il rischio è che, nove volte su dieci, si cominci a giocare con personaggi che non sono definiti da altro che dalla relazione in cui sono coinvolti e da un vago stereotipo legato al genere (ma su questo punto tornerò dopo): questo è ciò che definisco un personaggio “esile”, cioè poco articolato a livello di design, privo di uno “spessore” che lo faccia emergere come una personalità “a tutto tondo” ben distinta da quella del giocatore.
Non vi è nulla di intrinsecamente “sbagliato” nell’usare personaggi esili, beninteso. È una scelta di design spesso usata con la finalità precisa di accorciare la distanza tra personaggio e giocatore, tipicamente allo scopo di massimizzare il bleed: esempi eccellenti di questa pratica si riscontrano nei Jeepform, compreso il “canonico” Dubbio (in cui però, a parer mio, i personaggi tendono comunque a uno spessore leggermente maggiore, specie grazie alle spesso inconsuete occupazioni) e soprattutto i famigerati scenari firmati da Frederik Berg Østergaard. In effetti, credo che la ricerca sui personaggi esili condotta in ambito jeep sia stata determinante per arrivare alla teoria del personaggio come alibi.
Tornando al caso specifico di Tu mi turbi, ritengo che anche qui l’esilità dei personaggi a fronte di tanta attenzione all’esperienza emotiva debba certamente indurre al bleed. Vi è “bleed in” allorché i giocatori completano i personaggi esili con ampie parti di sé stessi, e in particolare li investono della propria emotività, così da poter rispondere alla domanda implicita «che cosa sta provando il tuo personaggio?»: nella maggior parte dei casi, infatti, i giocatori non potranno far altro che domandarsi «che cosa proverei io nella stessa situazione?» e attribuire quell’emozione al personaggio. Ed è invece un caso di “bleed out” quando il giocatore arriva a provare veramente una determinata emozione per effetto del gioco (uno dei possibili trigger previsti per i contatori). Non penso vi siano dubbi: questo è un design incentrato sul bleed.
Tuttavia, non penso si possa dire che massimizzare il bleed a ogni costo è l’obiettivo degli autori, i quali invece mostrano di distinguere fra un bleed “virtuoso” o comunque desiderabile (necessario al funzionamento del gioco) e un bleed indesiderabile, dannoso. Il loro desiderio di prevenire quest’ultima forma di bleed si manifesta infatti con raccomandazioni sparse qua e là per il testo: si sconsiglia ai giocatori di chiamare i personaggi con nomi di conoscenti, si sconsiglia alle coppie di giocare lo scenario 1, si offre lo scenario 2 come alternativa “meno forte”. Si teme, insomma, che il gioco possa arrecare danni emotivi o sociali ai partecipanti, e si prendono alcune precauzioni per scongiurare questa eventualità (ciò non è affatto scontato, a proposito: potrei citare esempi di design in cui simili precauzioni mancano del tutto, e a volte deliberatamente).
Alla luce di tutto ciò, penso che potrebbe giovare agli obiettivi degli autori rendere i personaggi di Tu mi turbi un po’ meno esili, forse espandendo i questionari iniziali di ciascuno scenario. Apprezzerei particolarmente domande volte a stabilire aspetti della loro identità non correlati, o addirittura in apparente contrasto con la situazione relazionale che è il fulcro del gioco. Si potrebbero così andare a definire una “ampiezza” del personaggio e una sua distanza (critica) dal giocatore, triangolando uno “spazio di manovra” in cui il giocatore trovi la libertà di attribuire al personaggio emozioni distinte e diverse dalle proprie: un’operazione quest’ultima che partirebbe comunque dal sé, ma con un maggiore grado di rielaborazione rispetto all’immediatezza istintuale del bleed.

Il dramma di Gamma

Apprezzo molto il fatto che i tre personaggi siano distinti a livello di meccaniche; tuttavia, ho il timore che l’assetto attuale penalizzi il ruolo di Gamma, rendendolo il personaggio emotivamente più piatto fra i tre. Il giocatore Gamma chiude tutte le scene, inquadra le scene tra Alfa e Gamma ma appare anche in quelle inquadrate da Beta, non può esprimere ad alta voce l’interiorità del personaggio tranne quando avanza un contatore, mentre il giocatore Alfa può descrivere l’esteriorità del personaggio Gamma. Ciò implica che, nella fiction, Gamma si esprime rivolgendosi ad Alfa, ma che a un livello “meta” noi giocatori non saremo mai del tutto certi della sua sincerità. Sottolineo: nemmeno il giocatore di Gamma, a volte, perché nel gioco cosiddetto tabletop conta lo “spazio immaginato condiviso”, ovvero ciò che viene espresso; un pensiero che resti inespresso è sempre passibile di revisione.
Per questa ragione, incidentalmente, penso che i momenti “spotlight” di Gamma saranno generalmente quelli in cui maneggia i contatori, perché saranno gli unici in cui un personaggio la cui interiorità è altrimenti insondabile dichiara al pubblico qualcosa sulle proprie emozioni, e la rarità di questi momenti li investirà di importanza. Tuttavia, osservo anche che nello scenario 1 le due gamme di emozioni associate ai contatori per Gamma sono interamente rivolte alla sua percezione degli altri, o da parte degli altri, e dicono in fin dei conti molto poco sulla sua identità: il personaggio continua ad essere definito solo in quanto Amante di Alfa.
Il principale asse per sviluppare Gamma in ampiezza mi sembra essere il suo rapporto con Beta. Giustamente, le domande di setup dello scenario 1 accennano a una frequentazione preesistente tra Lei e L’Amante, e questo è un aspetto che raccomando di approfondire, perché più forte questo legame e più sfaccettato può risultare lo scenario (nello scenario 2, un rapporto tra l’Amico e il Nuovo Arrivo ha almeno la possibilità di emergere nel corso del gioco dalla reciproca, forzata frequentazione). È pur vero che il contatore comune a questi due giocatori, Sospetto, è associato a una gamma di emozioni esclusivamente negative; tuttavia, le meccaniche di gioco già prevedono la possibilità, eccezionalmente, di far retrocedere un contatore, e questo evento straordinario potrebbe bastare come espressione di un rapporto positivo o un atto di fiducia tra Beta e Gamma. Viceversa, se questi due personaggi non hanno alcun legame (se per esempio si conoscono “solo di vista”) ne risulta danneggiata la complessità di entrambi, in quanto le scene inquadrate da Beta con Gamma saranno o molto forzate, o focalizzate su una sorta di “indagine per scoprire il tradimento”; ma Beta avrebbe comunque altri spazi per esprimere e definire la propria identità, mentre quelli concessi a Gamma sono estremamente angusti.
Al confronto, Alfa è il personaggio con il maggior potenziale di espressione a tutto tondo: non solo condivide con Beta il potere di intervenire, in qualche modo, in tutte le scene, ma i due contatori con cui interagisce contengono entrambi una gamma complessa di emozioni positive, negative e ambigue, e in aggiunta può definire l’aspetto esteriore del personaggio Gamma come ulteriore canale di espressione di sé.
Mi sono domandato se l’onore o onere di tagliare le scene possa essere sfruttato dal giocatore Gamma, anche indirettamente, come forma espressiva, ma non riesco a darmi una risposta: è un caso un po’ troppo complesso, ammetto, per visualizzarmelo semplicemente nella testa. Quello che vedo, in compenso, è che essendo la conclusione di ciascuna scena già vincolata a due condizioni obbligatorie saranno abbastanza rari i casi in cui esercitare un arbitrio significativo nel tagliarle: in altre parole, ritengo che quello di chiudere la scena sarà la maggior parte delle volte un incarico pro-forma.
Il rischio che vedo, insomma, è che in molte partite quello di Gamma rimanga un ruolo di supporto: che sia relegato ad antagonista e non possa svilupparsi in un protagonista alla pari dello scenario. Credo, per di più, che questa eventualità renderebbe meno significativo anche il gioco degli altri due, perché nel momento in cui Beta dovesse emergere come un “protagonista” e Gamma essere percepito come un “antagonista” quella tra le due relazioni diventerebbe per il giocatore Alfa una scelta non paritaria, almeno a un livello inconscio: la sensibilità meta-testuale è decisamente forte in tutti noi, e influenza il nostro modo di giocare.

Questioni di genere

Per me il grande mistero di Tu mi turbi come testo, più che a livello di design, è perché negli scenari si abbandoni la forma “Alfa, Beta, Gamma” per attribuire ai personaggi (che, ricordiamolo, sono praticamente privi di qualsiasi altra definizione) dei generi fissi: lui, lei e l’amante (è la amante: nel testo le concordanze sono al femminile); l’amica, l’amico e il nuovo arrivato. Lo trovo… inutilmente limitante.
Mi sembra che lo scenario 1 non cambierebbe di una virgola se semplicemente invertissimo i generi dei personaggi per avere una “lei” indecisa tra due “lui”. Ma, aggiungo, il triangolo funzionerebbe allo stesso modo anche se avessimo lui, lei e lo amante (di lui), se avessimo tutti i personaggi dello stesso genere, o qualunque altra combinazione: le dinamiche del rapporto di coppia e quelle della seduzione prescindono dall’identità di genere e dall’orientamento sessuale degli individui. Perché, quindi, imporre una visione etero-normativa, sicuramente alienante per parecchi potenziali giocatori? Sarebbe sufficiente mantenere nel testo dello scenario le diciture Alfa, Beta e Gamma per lasciarlo aperto a tutte le variazioni, senza appunto la necessità di apportare altri cambiamenti. E c’è di più: penso che lasciare queste decisioni (sul genere dei personaggi e sull’orientamento della loro attrazione) ai giocatori stessi sia un modo di creare degli spazi di definizione dei personaggi, così che possano emergere più come persone e meno come stereotipi.
Per quanto riguarda lo scenario 2, non mi è assolutamente chiaro perché mai assegnare d’ufficio un genere ai personaggi, a meno che questa non sia una maniera di suggerire un sotto-testo di attrazione sessuale nella loro relazione. Ebbene, se così fosse sarebbe una maniera maldestramente etero-normativa di introdurre questa tensione; meglio sarebbe suggerirla attraverso la gamma di emozioni associate a ciascuno dei tre contatori e, ancora una volta, lasciare che il genere di ciascuno dei personaggi sia definito dal giocatore (eviterei invece di introdurre nello scenario domande relative all’orientamento sessuale e lascerei che l’attrazione, eventualmente, emergesse spontanea durante il gioco).

Sul buttarla in ridere

Un altro mio dubbio è che gli stereotipi di “un uomo come tanti”, ecc., come uniche indicazioni fisse di caratterizzazione, uniti al tema del “triangolo”, possano essere interpretati dai giocatori come licenza di buttare il gioco in farsa. Escludo che questa sia l’intenzione degli autori, se non altro perché il meccanismo centrale del “provare emozioni” mi pare incompatibile con un intento farsesco. Penso che situazioni da commedia siano accettabili in un gioco sull’emotività, ma solo a piccole dosi e finché si mantiene un certo garbo: oltrepassato un limite alquanto sottile, invece, la comicità diventa facile protagonista e marginalizza o distrugge l’aspetto emotivo.
Il rischio va tenuto presente, tuttavia, perché cercare rifugio nella risata è una delle reazioni più diffuse fra gli esseri umani (in quanto, in genere, socialmente approvata) allorché si sentono in imbarazzo, e l’imbarazzo è fra gli esiti più probabili di un gioco ad alto bleed. Alcuni “giochi” sono blindati contro questa eventualità dal loro stesso argomento, perché è chiaro a tutti fin dal titolo o dalla sinossi che non c’è proprio niente da ridere, e quindi si sale lo scalino dell’imbarazzo già nel momento stesso in cui si sceglie di partecipare (penso a Gang Rape di Tobias Wrigstad, A Flower for Mara di Seth Ben-Ezra, lo stesso Novanta minuti, ecc.); al contrario, Tu mi turbi tratta di triangoli, spesso amorosi, vale a dire di uno dei temi tradizionalmente prediletti dalla commedia.
Ancora una volta, penso che una possibile soluzione possa passare per una maggior caratterizzazione dei personaggi, perché la farsa vive di stereotipi: più i personaggi sono tridimensionali, più anche i giocatori timidi saranno delicatamente ricondotti quantomeno sui binari di una commedia romantica garbata che lasci spazio ai sentimenti umani.

In conclusione

Avvicinandomi alla fine di questa lunga recensione, vorrei spendere qualche parola di lode per le note che (a pag. 13) gli autori di Tu mi turbi dedicano all’accessibilità del gioco e del documento. In particolare, sono i dettagli relativi alla leggibilità da parte di utenti dislessici e all’indice di complessità del linguaggio usato che mi colpiscono per essere evidentemente il frutto di una ricerca attenta o di una passione personale, e la breve bibliografia che si propone a riguardo rappresenta uno strumento di immediata utilizzabilità per altri game designer: sicuramente me ne servirò in futuro, e quindi ringrazio Manuela e Mattia per queste dritte.
Sempre nella postfazione, infine, gli autori ipotizzano un’edizione “in scatola” e in questo espediente vedono la possibilità di proporre una futura versione di Tu mi turbi a (parole loro) “non giocatori”, ovvero “un pubblico generalista”. Su questo punto penso di poter dare qualche consiglio, spero utile.
Il problema nell’avvicinare un pubblico non già assuefatto ai giochi di ruolo non si limita, secondo me, alla visibilità del prodotto-gioco (cosa in cui può aiutare una scatola), ma è soprattutto il problema di comunicare o insegnare la pratica di gioco: non tanto a livello di quali siano le pratiche “più corrette”, ma per ciò che riguarda le vere e proprie azioni di base. L’ipotetica edizione “in scatola” destinata ai “non giocatori”, quindi, dovrebbe insegnare strumenti che fra gli habitué si danno per scontati: come impostare le scene, quando parlare “in character” e quando “out of character”, e così via; cose che la maggior parte di noi hanno appreso per tradizione orale, non da un testo. Un manuale che spieghi questi concetti, tuttavia, non sarebbe la risposta giusta: l’esperienza dei board-game e quella dei videogiochi insegnano che per allargare il pubblico potenziale il manuale (inteso come testo da leggere prima di giocare) deve sparire, o almeno ridursi a non più di una pagina; le componenti debbono farsi auto-esplicative, o almeno portatrici di spiegazione, oppure il gioco deve contenere in sé il proprio “tutorial” (e, perfino così, i giochi in scatola si tramandano più spesso per insegnamento orale ed esempio che non per lettura dei pur scarni foglietti d’istruzioni).
Come rendere auto-esplicativo un gioco di ruolo è, a parer mio, la maggior sfida che un designer interessato al gdr come prodotto deve oggi affrontare (l’alternativa, in qualche modo già in atto, è solo la marginalizzazione o la completa rinuncia, accompagnata dalla ricerca di altri modelli di commercializzazione: per esempio, il gioco di ruolo come evento). Vedremo, quindi, che parte farà Tu mi turbi nella ricerca di nuove soluzioni.

Wednesday, June 5, 2013

Game Chef: dicono di "Lift Girl - La ragazza dell'ascensore", parte #1

Primo "guest post" nell'Orgasmo Cerebrale!
Ricevo da Daniele Frizzi una recensione di Lift Girl - La ragazza dell'ascensore, il mio gioco per questa edizione del Game Chef:
Mi piace moltissimo l'idea. Forse perché mi immedesimo tantissimo in questa Lift Girl visto che lavoro a contatto con il pubblico tutto il giorno.
Le scenette nell'ascensore, effettuate "ignorando" la ragazza mi sembrano geniali, e credo che possano avere un potenziale sia comico (per situazioni più leggere) sia più emotive.
Interessante la creazione e l'evoluzione di personaggi, basati su quell'unica frase ispirata alla loro carta e creando prima una "maschera" (da parte del giocatore che l'ha pescato) e poi successivamente approfondendoli con le deduzioni della ragazza dell'ascensore.
Altre cosa che ho apprezzato molto sono il setting (altra cosa in cui mi immedesimo e soprattutto il fatto che sia abbozzato abbastanza da lasciare libertà ma pieno di spunti per i giocatori) e la predisposizione per gli hack, non solo, anche il fatto che è presentato con due hack già pronti! devi averci lavorato giorno e notte!
Non mi è chiarissima la distribuzione delle carte Personaggio sul tabellone: chi decide quante ne vengono messe in gioco (ovviamente rimanendo nel minimo di una per piano)? E' l'ascensorista a distribuirle?
Mi sono anche perso un attimo nel punto 6: il giocatore che possiede l'ultima carta chiamata decide se rimuovere tutti i segnalini chiamata… ma non sarebbe rimasto solo il suo, visto che è l'ultimo con una chiamata ancora in gioco? Forse mi è sfuggito qualcosa…
Un sacco di pregi e nessun difetto, se non che ora ho una gran voglia di giocarlo e nessuno che ha tempo di provarlo con me!
Lift girl è un gioco che, pubblicato magari nella sua scatolina con plancia e mazzo (stile montsegur, per intenderci), comprerei senza pensarci due volte!
E' già molto bello e rifinito per un gioco sviluppato nei pochi giorni della gamechef. L'unico dettaglio che può mancare è un actual play o alcuni esempi di gioco nella spiegazione del regolamento.
In ogni caso, complimenti. Un prodotto fantastico che fa veramente venire voglia di giocarlo.
Grazie della recensione e dei complimenti! ♥

Tuesday, June 4, 2013

Recensione Game Chef 2013: “Le cronache del sangue e del ferro”, di Alberto Tronchi

[Here is one of four reviews I'm supposed to write for Game Chef 2013. It's in Italian, since I participated in the Italian-language subsection this year. I apologize to my non-Italian-proficient readers for the high amount of Italian posts on this blog of late! Regular English posting to be resumed in about a week.]

*EDIT: aggiunto un link all'elaborato recensito*

Le cronache del sangue e del ferro (d’ora in poi soltanto Cronache) è uno di quei giochi di ruolo tutti costruiti attorno a una singola idea centrale per una nuova meccanica; meccanica che, in questo caso, è eccellente. Purtroppo, è lo sviluppo di tutto il resto dell’impianto del gioco a non essere minimamente all’altezza: i difetti strutturali sono abbastanza macroscopici (e fondamentali) da rivelarsi già alla lettura al punto che, fatto inconsueto, mi sento del tutto certo del mio giudizio senza alcun bisogno di una prova pratica.
In aggiunta, devo evidenziare come questo si proponga come un gioco per “2 oppure 4” giocatori, ma è chiaro alla lettura che è stato interamente pensato per quattro, e solo in alcuni casi sono esplicitate le variazioni da apportare alle regole qualora si giochi in due.

L’ottima idea

La meccanica centrale di Cronache è quella di estrarre casualmente un tassello con un’icona (un’immagine grafica fortemente stilizzata, monocromatica, proveniente dal sito Game-icons.net), assegnare creativamente un titolo alla figura e da questa coppia di immagine e parole trarre ispirazione libera per un contributo alla fiction condivisa.
Il concetto generale di usare input visivi astratti nel gioco di ruolo è qualcosa di cui personalmente sono innamorato da molto tempo (non a caso, io stesso sto elaborando da anni un gioco che usa in questo modo i tarocchi), ma non avevo mai pensato di ricorrere a immagini tanto sintetiche quanto lo sono queste icone. L’invenzione geniale di Alberto Tronchi, comunque, secondo me sta nell’atto di aggiungere all’icona un titolo: l’immagine astratta e sintetica si trova così contemporaneamente ampliata e specificata, e la diade icona-titolo così costituita è un oggetto assolutamente completo e complesso, dal ricco potenziale di generare sfumature di significato. L’atto di intitolare liberamente l’immagine, in sé, si potrebbe ravvisare a giochi come Dixit (Roubira 2010), ma le sue implicazioni sono molto diverse quando l’immagine, anziché fiorire esuberante di elementi come appunto le carte di Dixit o i tarocchi “esoterici”, si attiene alla sintesi pulita e scarna di questi piccoli disegni.
Mi entusiasma anche come questa meccanica di interpretazione delle icone è usata per creare collettivamente l’ambientazione fantasy. L’impero di Varytion, infatti, viene tratteggiato in poche righe, nelle quali si danno dei precisi “paletti” di ambientazione: dati di fatto inalterabili, ma molto schematici; oltre questo punto, la “creazione del mondo” è lasciata, giustamente, ai giocatori, che in questo devono farsi ispirare da icone estratte casualmente. Oltre a trovare questo approccio soggettivamente più divertente rispetto al leggere pagine e pagine scritte dal game designer, ritengo sia anche un metodo oggettivamente più pratico e accessibile, perché offuscando il confine tra “preparazione” e “gioco” coinvolge quasi da subito i giocatori in un’attività creativa pratica; tanto più che le informazioni così “prodotte” risultano in genere più facili da ricordare durante la partita rispetto a nozioni assorbite passivamente. Molto giustamente, oltretutto, questa fase del gioco dura tanto quanto i giocatori desiderano.
Il passaggio successivo, che si svolge con modalità simili, è la creazione dei personaggi, a cui mi sento di fare solo un appunto o due. Trovo infatti che i concetti di “Essenza” e “Passione” del personaggio non siano nel testo né definiti abbastanza chiaramente, né distinti l’uno dall’altro in maniera sufficientemente netta: secondo me, queste descrizioni andrebbero riformulate. Inoltre non sono del tutto convinto dall’idea di limitare l’Essenza a solo otto possibilità, anziché lasciare che sia una domanda a risposta aperta come per la Passione e il Destino: al di là del dare più evidenza agli “ingredienti” del Game Chef (problema che naturalmente nasce e muore con questa prima bozza), mi sembra che il senso di tale scelta di design possa essere quello di fungere da “tutorial” per le successive due fasi della creazione del personaggio, mostrando come a una medesima icona possano darsi “titoli” molto diversi… Tuttavia, i giocatori non dovrebbero essersi già impratichiti con l’interpretazione delle icone durante la fase di creazione del mondo?
Una menzione di lode al personaggio d’esempio: non solo perché si tratta vistosamente di un “antieroe”, ma perché in poche righe presenta una personalità assai sfaccettata e tridimensionale.

La pessima idea

Dopo le fasi preparatorie, con tutti i loro pregi, veniamo però alla struttura centrale del gioco e a come vi viene inserito il sopralodato metodo di interpretazione delle icone. Qui, purtroppo, tutte le ottime premesse vengono deluse. Nel suo stato attuale, Cronache è un gioco di monologhi misurati col cronometro, che offre ai giocatori pressappoco il grado di interattività di un “reality show” televisivo. L’aspettativa che mi si è creata alla lettura è quella di quattro-cinque ore di noia crescente (si provi a fare il conteggio della durata prevista per le “scene”), o al massimo, nella migliore delle ipotesi, quella di una versione meno evoluta de Il Barone di Munchausen — pionieristico gioco di James Wallis di cui ho un’altissima opinione, considerato anche che risale a circa quindici anni fa, ma comunque meno sofisticato rispetto a numerosi e ben noti design successivi, e tuttavia superiore a Cronache per durata della partita (con soli quattro partecipanti sarebbe altamente improbabile superare le due ore), flessibilità nel numero dei giocatori, concisione del regolamento (esposto in una pagina) e perfino, quel che è più grave, per l’effettiva interazione (quantità e qualità degli scambi fra giocatori durante la “narrazione”).
Intanto, è un problema il fatto che ogni scena, senza eccezioni, sia interamente “narrata” da un giocatore singolo (ma non sarebbe intrinsecamente un problema se solo alcune o perfino la maggior parte delle scene lo fossero: vi vedano Perfect di Joe Mcdaldno e Microscope di Ben Robbins per esempi di design che impiegano ampi spazi di “narrazione” unilaterale con notevole profitto). L’autore si mostra consapevole della noia che può derivare da questa scelta di design, e infatti tenta di arginarla (maldestramente) con l’imposizione rigida di un limite di tempo: ma ciò non può essere che un palliativo, per di più scomodo da mettere in pratica (perché richiede di giocare tenendo d’occhio un cronometro).
Come unica forma d’interazione fra giocatori, Cronache propone la combinazione di due espedienti che personalmente aborro entrambi come filosofie di design, almeno in un gioco di ruolo: la narrazione come difficoltà e il giudicare il gioco altrui. Quando dico “narrazione come difficoltà” intendo che i giocatori si sfidano l’un l’altro ad inserire determinati elementi (in questo caso, icone) nel racconto, anziché collaborare per farlo: dare a un gioco questa impostazione è negativo perché impedisce di suggerirsi a vicenda soluzioni, di scambiarsi veri contributi, che per me è invece uno degli aspetti più piacevoli del gioco di ruolo al tavolo, e lascia ciascuno in balia della propria eventuale “sindrome da pagina bianca”; alla lunga, produce un ambiente ostile e porta alla disgregazione dello spazio immaginato condiviso, perché più un giocatore si impegna nel creare “avversità”, in questo caso suggerendo spunti non facili da integrare, più è probabile che ciò metta un altro giocatore nell’impossibilità di proseguire. Riguardo al giudicare “quanto bene” giocano gli altri, trovo che ciò sia valido finché si tratta di un “applauso”, di un feedback esclusivamente positivo non sollecitato, come il noto meccanismo delle “fan-mail” in Avventure in prima serata di Matt Wilson; qui invece si chiede agli altri giocatori di agire come la giuria di una gara di tuffi, e questa è la principale o unica fonte dei punteggi che decidono del destino dei personaggi a fine gioco. L’autore è chiaramente consapevole di quanto questo approccio sia confusionario, e di come possa portare a conflitti d’interesse (tra giocatore e giocatore, di un giocatore con sé stesso, fra diversi impulsi creativi): infatti si sente in dovere di specificare che Cronache “non è un gioco competitivo”, chiedendo fra l’altro ai giocatori di essere giudici imparziali di sé stessi (uno dei compiti più difficili per chiunque, temo).
Ma anche se, per assurdo, considerassimo buoni i principi di design alla base di Cronache, vi sarebbero comunque in questa prima versione una serie di errori (in alcuni casi forse sviste nel testo?) sufficienti a minarne la giocabilità in modo critico, e che quindi suggerirei di correggere subito, prima di tentarne qualsivoglia playtest:
  • Nella fase di cerca, anche il giocatore di turno estrae un’icona per… porla come limite a sé stesso?! E alla fine è chiamato a esprimere un giudizio sulla propria prestazione di narratore riguardo quell’elemento, attribuendosi o meno un punto di Gloria?! Non credo proprio ce ne sia motivo, quando giocare con sole tre icone-vincolo sarebbe del tutto equivalente (dato che la meccanica di fine gioco è semplicemente una gara a chi ha più Gloria). E poi, che cosa accade in una partita a due giocatori? Due vincoli me li pongo da solo e due me li pone il compagno di gioco?
  • L’uso “normale” di una Relazione (ovvero, senza sacrificarla) conferisce… una proroga di due minuti sulla durata massima della scena?! E perché mai? Se il limite di tempo serve, come credo, per ridurre il rischio d’annoiare gli altri giocatori, il ragionamento è forse che riutilizzando più volte gli stessi PNG li si annoia di meno?
  • I punti Rovina sono inutili, nonostante che un terzo delle scene e almeno un quarto del tempo previsto di gioco (la fase di Caduta) siano focalizzati sulla loro acquisizione! La meccanica di fine gioco, infatti, è una semplice classifica dei protagonisti in base al punteggio di Gloria ottenuto. La Rovina conta solo se ha valore esattamente pari alla Gloria, nel qual caso fa scattare il finale “Destino”. Ma un personaggio che soddisfa le condizioni per “Destino” avrà comunque anche una posizione nella classifica della Gloria (primo, ultimo, o né primo né ultimo): il finale “Destino” ha la precedenza, oppure va considerato in aggiunta a una delle altre categorie? E se “Destino” ha la precedenza, qualora si applichi al personaggio con più Gloria lo “squalifica” dando il titolo di Campione al “secondo classificato”, o il gioco può concludersi senza che vi sia alcun Campione dell’Imperatrice? Il testo non risponde a queste domande.

L’idea non chiara

Il gioco dichiara la propria affiliazione a un genere letterario che l’autore chiama “dark fantasy”, dandone una definizione mi pare abbastanza personale, per la quale cita solo due opere esemplari (entrambe “saghe” a puntate piuttosto recenti, a quanto mi risulta). Fino all’altro giorno, se mi avessero chiesto che cosa si intende con l’espressione “dark fantasy” avrei osato scommettere su “una mescolanza di elementi dell’horror e del fantasy”, e forse avrei azzardato citare alcune opere di Howard P. Lovecraft o Michael Moorcock come esempi (insomma, la mia definizione avrebbe più o meno coinciso con quella proposta su Wikipedia inglese). Alberto Tronchi sembra pensarla diversamente, ma sembra anche dare per scontato che la propria opinione sia largamente condivisa… Ora, i confini dei generi letterari (o dei “generi” in qualunque accezione) stanno dove scegliamo di metterli, perciò non ha davvero molta importanza che cosa sia il “dark fantasy” secondo l’autore di questo gioco, o secondo me, o secondo qualche critico di narrativa commerciale o qualche utente di Internet: ciascuno la pensi pure come vuole. Il problema se mai è che, se l’espressione “dark fantasy” fa venire in mente a un lettore (in questo caso, io) qualcosa di diverso da ciò che pensava l’autore, allora il suo impiego non è una buona strategia comunicativa.
Strategia migliore, e in parte già impiegata in Cronache, è elencare esplicitamente i “canoni” del tipo di narrativa che si è preso a riferimento. I parametri qui forniti sono però molto scarni e tratteggiano un quadro abbastanza confuso, a volte rimarcando ciò che dovrebbe essere ovvio al comune buonsenso e a volte, apparentemente, contraddicendosi. Per esempio, mi si dice che “nessuno è completamente buono né completamente cattivo”, ma come potrebbe non essere così? Al contrario, se nel mondo immaginario di un gioco esistessero cose come il bene assoluto e il male assoluto, allora sì mi aspetterei che l’autore lo specificasse a chiare lettere, perché questa sarebbe una ben precisa differenza rispetto alla realtà, o almeno rispetto alla comune percezione della realtà. Tuttavia, subito dopo si aggiunge che “la Vergine Imperatrice è pura e priva di malvagità”, e che “i mostri sono temibili e crudeli”: due fatti che potrei intendere, invece, proprio come degli assoluti morali in contraddizione con quanto appena detto. Una spiegazione che mi sono dato è che l’autore si raffigura come lettore-tipo qualcuno la cui è esperienza del “fantasy” è fondata non tanto sulla narrativa quanto su linee editoriali quali Dungeons & Dragons Terza Edizione, Dungeons & Dragons Quarta Edizione e simili (con cui, in effetti, questa bozza mostra anche una certa affinità di registro linguistico): le indicazioni date sarebbero allora una lista di punti in cui la letteratura di riferimento di Cronache differisce dalla presunta esperienza ludica pregressa dei potenziali giocatori.
Tutto ciò ha importanza soprattutto perché il testo di Cronache insiste spesso sul rispetto del “focus”, cioè di questi vaghi paletti d’ambientazione e di tono, ma non fa molta chiarezza sul ruolo che la fedeltà al modello letterario avrebbe rispetto all’obiettivo finale del gioco. Su quest’ultimo punto, infatti, si esclude la competizione come fine, ma a parte ciò non si definisce nulla in maniera attiva. Debbo pensare che il vero scopo di Cronache sia il narrare storie quanto più possibile simili ai (quasi omonimi) romanzi-fiume di Martin? O forse “celebrarli”, nel senso in cui lo farebbe una fan-fiction? O ancora, che l’aderenza a questo modello sia solo strumentale, una scala su cui valutare la prestazione dei giocatori o una linea guida sulla cui base autolimitarsi, mentre il fine ultimo del gioco va ricercato altrove? Ci si può chiedere se l’assenza di chiarezza a riguardo sia un vizio di comunicazione, o se rifletta una simile assenza di chiarezza nella mente dell’autore.

In conclusione

Il mio suggerimento ad Alberto Tronchi è di ridisegnare Cronache in maniera molto radicale. Se fossi in lui, inizierei tentando di descrivere con molta più precisione il suo “genere” letterario di riferimento, poi passerei a chiedermi perché è importante e tenterei di definire con la maggior chiarezza possibile lo scopo, la finalità dell’esperienza di gioco. A questo punto, conservando sostanzialmente inalterate le fasi di creazione del mondo e dei personaggi, procederei a riprogettare da zero tutto il resto delle regole.