Monday, June 10, 2013

Recensione Game Chef 2013: “Io, me Stesso, me”, di Lavinia Fantini

Io, me stesso, me è un “gioco di ruolo in solitario”. Non però nell’accezione in cui lo erano un tempo le “avventure in solitario” per Dungeons & Dragons, Tunnels & Trolls o Uno sguardo nel buio, affini al libro-gioco e al videogioco single-player. Il design proposto da Lavinia Fantini si inquadra piuttosto in una nuova tradizione di riscoperta del gioco solitario promossa dalla RPG Solitaire Challenge (2011) patrocinata da Emily Care Boss: si tratta sostanzialmente di fornire linee guida e strumenti, talvolta una scaletta che il giocatore possa seguire nel fantasticare per conto proprio, costruendo storie nella propria immaginazione.
Come recensore mi sono trovato in difficoltà, perché se da un lato ho letto le istruzioni di alcuni giochi appartenenti a questo filone (Relic di Ron Edwards, Map of the House di Jackson Tegu, Teen Witch di Joe Mcdaldno) tuttavia non li ho mai provati in prima persona. La mia esperienza credo più simile è stata quella con How to Host a Dungeon di Tony Dowler, un gioco di costruzione procedurale di una mappa che, in aggiunta, produce anche una sorta di narrazione (se tale vogliamo definire una semplice cronologia di avvenimenti): ciò mi dà perlomeno un’idea del ruolo che un gioco “in solitario” potrebbe occupare nella mia vita, ma con How to Host a Dungeon stiamo pur sempre parlando di un’attività basata sulla manipolazione creativa di oggetti concreti, paragonabile al giocare con i Lego.
Siccome, insomma, non mi sentivo sufficientemente esperto in questa tipologia di gioco da poter formulare un giudizio alla lettura, ho ritenuto mio dovere tentare un playtest. Non è stata una decisione difficile a prendersi: dei quattro giochi che mi sono stati sottoposti per recensirli, questo è proprio quello che nel complesso ho trovato più attraente, e che più ero curioso di provare. Purtroppo la cosa si è svolta in condizioni non ottimali: vi ho potuto dedicare non più di un’ora di tempo, durante la quale oltretutto si sono verificate alcune interruzioni, e sentendomi sotto pressione per una serie di piccole scadenze (fra cui quella di queste recensioni, con cui sono comunque in ritardo) non sono riuscito a raggiungere quello stato di relax, di tranquillità contemplativa che mi sono convinto questo gioco richieda. L’impressione a cui sono pervenuto, comunque, è che purtroppo Io, me stesso, me, nel suo stato attuale, “non funzioni” per me: con ciò non sono tuttavia in grado di concludere che non funzionerebbe per altri. Anzi, a essere sincero non posso neppure escludere del tutto che avrebbe funzionato anche per me in differenti condizioni, ma mi permetto di essere un po’ scettico a riguardo: diciamo che il verificarsi di tali condizioni è già abbastanza improbabile di per sé, ma soprattutto che la ragione per cui mi servirebbe così tanta tranquillità per riuscire forse a giocare è che l’attività base di questo gioco mi risulta molto impegnativa, perfino faticosa.
Comunque, questa è a tutti gli effetti una recensione di playtest, per quanto parziale: nel seguito di questo articolo racconterò dunque la mia breve esperienza con gli strumenti forniti da questo design, i punti di maggior attrazione che esercitavano su di me e le difficoltà che ho trovato nel tentativo di utilizzarli.

La prima impressione

La premessa di un defunto che si guarda alle spalle, verso una vita vissuta che non ricorda distintamente, mi sembra più importante per il ruolo che ha avuto nel processo creativo dell’autrice, dandole lo spunto iniziale, che non come influenza sullo svolgimento effettivo del gioco: qui a farla da protagonista è chiaramente la prospettiva psicologica, la riflessione sul comportamento umano in vita, fuori da ogni cornice teleologica. Il vero fulcro del gioco, da cui il titolo, è la scomposizione del comportamento nei tre aspetti della psiche qui chiamati “guide” (Es, Ego e Super-ego). Mi sembra onesto dire che tutto si costruisce attorno a questa idea di ipotizzare le conseguenze su uno stesso scenario quando lo si affronta con l’una o con l’altra faccia della stessa personalità. Ammetto che per me non è tanto questa scomposizione, in sé, ad essere attraente, quanto l’idea che essa possa riflettersi sul tono complessivo di una scena: il mio dettaglio preferito nel testo sono le indicazioni di “regia” date per ciascuna delle tre guide (colori, luci, suoni, odori), e forse è stato questo in particolare a stuzzicarmi a provare.
La conclusione del gioco è comunque una scelta “morale” sul destino dopo la morte. Di primo acchito, sembra un buon finale perché lasciato aperto all’interpretazione: si invita il giocatore a scegliere qual è la sorte “moralmente giusta” per il protagonista, lasciandogli però pieno arbitrio nel definire la propria morale. Forse alla lettura non mi ha fatto l’effetto di uno di quegli aspetti intriganti per cui provare il gioco, ma almeno mi è sembrato qualcosa di adeguato e non ingombrante: un finale “scusa”, magari, ma più che valido in questo ruolo.

Actual play, problema 1: io, me stesso e i miei ingombranti ricordi

Per cominciare, ho “creato il personaggio”, attenendomi alla scaletta e agli esempi dati. In effetti, ho provato una sensazione di troppa libertà a questo punto: da dove iniziare? Perché preferire un protagonista con certi tratti piuttosto che altri? Qual è, insomma, la ricetta segreta di un protagonista “interessante”? Ho fatto ricorso al mio default, cioè l’esperienza diretta di vita, creando un protagonista, Mario, che era praticamente una plausibile sovrapposizione di caratteristiche tra due miei amici con poco in comune fra loro, più un dettaglio che mi è passato per la mente per caso.
Poi mi sono scritto tre “frammenti”. Ho riletto più volte il paragrafo a riguardo e gli esempi, alla ricerca di consigli, di “trucchi” nascosti, ma ho trovato meno indicazioni di quanto sperassi. O, forse, mi stavo preoccupando troppo, quando invece qualsiasi cosa sarebbe andata bene? Ho tratto tre episodi tutti dalla mia esperienza diretta, ma forse questa non è stata necessariamente una buona idea, come si vedrà. Poi mi sono chiesto da quale cominciare, e (presagendo che probabilmente non sarei andato oltre il primo) ho puntato su quello che mi sembrava più ricco di potenzialità di conflitto; fra l’altro, un avvenimento abbastanza recente della mia vita: andare a trovare a casa un’amica di lunga data per parlare del nostro rapporto dopo un litigio al telefono.
Ho scelto l’Ego come prima Guida sia perché mi sembrava la scelta più adatta alla situazione, sia perché (come consiglia il testo) mi sembra rappresentare un aspetto della psiche con cui personalmente mi trovo a mio agio nella vita reale: in breve, in questo contesto viene descritto come una tendenza verso il compromesso, una pulsione di mediazione tra sé e gli altri. Determino casualmente che l’altra Guida attraverso la medesima situazione sarà poi il Super-ego.
Per questa scena creo anche due personaggi (l’amica, Marcella, e il suo fidanzato che convive con lei), appuntandomene per iscritto le caratteristiche salienti. Il testo non prescrive espressamente di scriverli, ma ritengo di avere la necessità di fissare qualcosa al di fuori della mia testa così da impedirmi di trasformare involontariamente i personaggi in corso d’opera: scrivo, insomma, per meglio riuscire a conservare la loro integrità. Compio qui quello che a breve si rivelerà un errore, ovvero partire nella definizione dei personaggi dai miei amici reali presenti in quella specifica situazione: anche se mi impongo di differenziarli esplicitamente da quelle persone almeno in qualcosa, ormai ho commesso l’errore di visualizzarli coi loro volti, e non riesco più a tornare indietro.
Quando inizio a immaginarmi la scena (se è possibile, in un esercizio mentale come questo, determinare il momento preciso in cui ho iniziato a immaginare la scena), l’ambiente è la casa della mia vera amica. E non potrebbe essere altro posto: ero partito da un mio ricordo per decidere la situazione-spunto, giusto? E il mio ricordo dell’evento reale corrispondente è inestricabilmente legato al luogo, o almeno all’impressione soggettiva del luogo; come del resto ogni altro mio ricordo. Per questo sopra ho scritto che non è stata una buona idea scegliere come “frammenti” degli episodi vissuti in prima persona: sono convinto che se fossi partito da problemi di amici o conoscenti, da situazioni che conosco solo per sentito dire, allora le cose sarebbero andate in modo diverso.
Comunque, faccio appello alle indicazioni “di regia” che il testo suggerisce per la mia Guida attuale: intervengo sulla mia immagine mentale della scena focalizzandomi sulle luci, sugli odori, sui suoni. Attraverso questo procedimento decido che è estate, fa caldo, si sentono frinire le cicale: col senno di poi, mi accorgo ora che questi sono comunque ricordi sensoriali legati a quel luogo reale, ma non a quello specifico episodio (che invece è avvenuto in un’altra stagione). Quindi sono in qualche modo riuscito a differenziare la scena immaginaria dal mio vero ricordo: sto giocando. Decido che Mario, sotto la guida del suo Io conciliatore, si presenta alla porta con del gelato. «Ah-ah!», penso, «Io non avevo del gelato con me quella volta , e ciò significa che sto riuscendo a far funzionare il gioco!», non rendendomi conto lì per lì che questo è indice di una difficoltà abbastanza grave, invece: in pratica, se ero tutto concentrato sul rendere in qualche modo la scena diversa dal mio ricordo, ciò significa che stavo comunque ancora basandomi sui miei ricordi, invece che immaginare quelli del mio protagonista.
Più o meno a questo punto, mi accorgo che non sto visualizzando Mario sulla porta con la confezione di gelato (avevo già più o meno definito l’aspetto di Mario, o meglio, avevo più o meno preso atto che lo immaginavo simile al mio amico A.): sto visualizzando me! E questa infatti è un’altra trappola da cui non sono più riuscito a sganciarmi, per quanto lo volessi.

Actual play, problema 2: io, abbandonato a me stesso

Continuo comunque a cercare d’immaginare la scena, sempre sforzandomi di renderla diversa da come la ricordo davvero. Mi interrompo per ridare un’occhiata al manuale: le scene devono sempre arrivare a un punto di crisi o di conflitto, giusto? Ah, no, non necessariamente: possono anche arrivare a una silenziosa frustrazione o qualcosa del genere. Comunque, penso, diamogli un po’ di filo da torcere, a questo vigliacco del mio Ego conciliatore! Immagino quindi che per qualche minuto la conversazione volga sul gelato, ma poi Marcella si rivolga a me/Mario a muso duro dicendo: «Credevo che fossi qui per parlare di qualcos’altro!»
Mi rendo conto, però, che a questo punto anche la mia capacità di sostenere, diciamo così, il mio “spazio immaginato individuale” sta vacillando. Dopo questa battuta, non riesco a immaginare il dialogo parola per parola (o non ne trovo la voglia), ma sono portato a riassumere, nella mia testa, la scena, a immaginarla velocizzata. Qualcosa tipo (più o meno testualmente): “allora il protagonista si mostra mortificato, Marcella abbassa leggermente i toni, cominciano a parlare dell’argomento, girandoci intorno, vanno avanti così per più di un’ora ma è chiaro che nessuno dei due riesce davvero a capire il punto di vista dell’altro. Rientra il di lei ragazzo, suggerisce che il protagonista si trattenga per cena e lui non osa rifiutare, ma seguono ore di imbarazzati silenzi e totale incomunicabilità.” Mi sembra che possa andare come conclusione della scena. Nel frattempo, sul pezzo di carta che avevo davanti a me ho annotato sparse parole come: imbarazzo, silenzio pesante, sentirmi a disagio.
A questo punto, dovrei “riprovare” la situazione sotto la guida del mio Super-ego… pardon, del Super-ego del protagonista, per vedere in che cosa sarà diversa. Ma mi trovo in difficoltà su più fronti. Innanzitutto, sono in difficoltà a modificare la “regia” (l’aspetto sensoriale) della location per adeguarlo alla giuda: ora che ho stabilito che è estate e si sentono le cicale, quanto è lecito cambiare di questo? Ora che mi trovo a raccontare la mia esperienza a mente fredda, mi vengono in mente molte soluzioni anche interessanti, ma lì per lì è chiaro che stava subentrando in me la stanchezza. Sono già alla paralisi mentale, non riesco a decidere come il Super-ego mi guiderebbe a agire: umiliando me stesso e dando ragione senza riserve alla mia amica, o mettendo lei sulla lista di quelli che hanno torto e radicandomi nella mia posizione?
In realtà, è chiaro che non c’è modo di sbloccare la questione senza conoscere il contenuto esatto del diverbio che i due personaggi hanno avuto in precedenza. E questo spiega anche la mia fatica e difficoltà a soffermarmi sui dialoghi nella prima versione della scena: io non sapevo per cosa i due avessero litigato, non l’avevo mai deciso! Il default più spontaneo sarebbe forse: per lo stesso motivo per cui io nella mia vita reale ebbi una discussione una volta con quella certa mia amica; ma questo, per fortuna, il background di Mario, completamente diverso dal mio, lo rendeva impossibile. Dico “per fortuna” perché sono abbastanza convinto che l’intendo dell’autrice di questo gioco non sia mai stato quello di farmi affrontare una improvvisata sessione di auto-terapia, e quindi se avessi continuato in quella direzione avrebbe voluto dire che stavo sbagliando qualcosa.
Una cosa di cui sono certo è che in un gioco con altri giocatori vi sarebbero stati abbastanza strumenti per far fronte a questo problema, diciamo così, “di vuoto di contenuti” da renderlo a tutti gli effetti un non-problema. Per esempio, se la medesima scena fosse stata giocata da più giocatori, chi in quel momento interpretava Marcella avrebbe potuto, sempre parlando nel personaggio, improvvisare delle informazioni sul litigio; io avrei preso spunto da quelle informazioni e automaticamente vi avrei aggiunto del mio, e così via: coinvolgere altre persone in un simile processo lo rende più facile. Oppure, qualunque giocatore avrebbe potuto interrompere e, come suggerimento fuori personaggio, dire qualcosa sul litigio; forse avremmo, nella pratica, riavvolto il tempo per chiederci che cosa fosse accaduto prima. In quest’ultimo caso, è importante anche osservare che lo spazio immaginato condiviso fra più giocatori (insomma, la conversazione) siccome siamo abituati a maneggiarlo è elastico e resistente: se la conversazione “torna indietro nel tempo” sugli antecedenti dei fatti, tuttavia non siamo confusi su cosa avviene quando, e se anche volano suggerimenti a destra e a manca, tuttavia raramente abbiamo dubbi di legittimità su cosa è da considerarsi “accaduto” rispetto a cosa era solo un’ipotesi.
Al contrario, nel gioco in solitario ogni problema torna nuovo e bisogna inventarne una soluzione. E mantenere l’integrità complessiva dello spazio immaginato è già un esercizio difficile. Il problema è di convalida, di conferma, di distinzione tra pensiero e pensiero: come tengo separata ogni altra cosa che mi attraversa la testa da ciò che sto immaginando specificamente come scena? Soprattutto i molti pensieri che hanno comunque a che vedere con l’esercizio in sé, o con la scena stessa. Le diverse versioni, o possibilità, immaginate in simultanea. Il tornare indietro con la mente, appunto, a specificare che cosa era avvenuto prima. Difficile, insomma, orientare il mio cervello a immaginare in un’ordinata sequenza cronologica; i miei pensieri sono in genere un caos che riesce ad essere ordinato solo dall’atto dell’espressione all’esterno, mediante il linguaggio parlato (o scritto). Forse il punto è che Io, me stesso, me somiglia un po’ troppo nelle sue strutture a un gioco di ruolo per più persone, con la sola differenza di essere per una?
Fatto sta che prima di completare il secondo “ciac” della scena ho abbandonato l’esercizio, alquanto affaticato.

Soluzioni?

L’unica cosa che mi viene in mente è la possibilità di guidare più fortemente il giocatore. È possibile (anche se non sono certo che questa sia la sola fonte di problemi) che ora come ora sia tutto fin troppo libero. Forse il gioco beneficerebbe di una presenza più forte, più “interventista” del game designer: del diventare un dialogo tra autore e giocatore, invece che il giocatore che tenta di dialogare con sé stesso.
Intanto, il segreto della sua giocabilità potrebbe essere in una “giusta” selezione del personaggio protagonista, dei frammenti di memoria, dei comprimari; selezione per la quale occorrono allora linee guida più stringenti. In realtà, forse a questo punto dello sviluppo l’autrice stessa non ha ancora le idee al cento per cento chiare su quale alchimia di elementi sia necessaria a far funzionare l’esperienza di gioco, il che significa che deve innanzitutto assicurarsi di averla trovata: dopodiché ci sarà ancora del lavoro di design in senso stretto da fare, vale a dire distillare questa alchimia in suggerimenti, esempi o addirittura regole che non dico che garantiscano (questo sarebbe presuntuoso e impossibile), ma che ne rendano il più possibile probabile il verificarsi.
Ho detto anche “regole” perché, personalmente, mi troverei di sicuro più a mio agio con qualche cosa tipo degli “oracoli”: degli insiemi di elementi predeterminati da cui in qualche modo attingere, combinandoli, così da utilizzare la mia esperienza individuale solo come collante, e non come punto di partenza unico. Forse mi sarebbe anche d’aiuto se un maggior numero di componenti del gioco, per esempio i personaggi, fossero sottoposti a regole che obbligano a metterli per iscritto (come avviene per i frammenti) e, in più, indicano una forma specifica in cui scriverli. In definitiva, insomma, forse quello che sto cercando, o che per gusto personale mi piacerebbe vedere aggiunto a questo gioco, sono dei fattori casuali ed esterni a me (fossero anche solo delle macchie di Rorschach) con cui confrontarmi per ottenere una qualche forma di “straniamento” o di “auto-alienazione” che mi aiuti a dare corpo e struttura autonomi alle mie fantasie.

In conclusione

Nel breve e incompleto “esperimento” che ne ho fatto, il sistema di gioco di Io, me stesso, me non ha granché funzionato per me. Mi sono fatto così l’idea che sia un’attività impegnativa, che richiede pertanto condizioni molto favorevoli per essere condotta con successo, e che forse mi chieda più di quanto non mi dia in cambio, perché in qualche modo mi sono sentito “lasciato solo” dal designer del gioco, invece di provare la sensazione di interagire indirettamente con lei attraverso le dinamiche e gli elementi da lei progettati.
Con ciò non sono tuttavia disposto a concludere in maniera definitiva che l’esperienza non avrebbe potuto funzionare per me date circostanze differenti. E, a maggior ragione, non mi sento di azzardare alcun ragionevole giudizio sulla sua fruibilità da parte di altri! È davvero ancora tutto da verificare.
Debbo quindi concludere questa recensione con più dubbi che non certezze. La sola cosa di cui sono certo è che consiglio a Lavinia di non demordere, in nessun caso, ma invece di provare e far giocare il gioco. Spero che il resoconto del mio tentativo, seppur breve e frammentario, le sia di qualche utilità: e casomai i miei dubbi dovessero risuonare con quelli espressi prima o dopo di me anche da altri, mi auguro di avere, nel mio brancolare a tentoni nel buio, indicato possibili direzioni di ricerca e sviluppo e non meri vicoli ciechi.
È un territorio quasi vergine, questo, e perciò mi sento di dire: brava, eccezionalmente brava anche solo per aver provato!

2 comments:

  1. Ciao Rafu, ti rispondo qui per praticità ^^

    Intanto grazie per la recensione davvero molto approfondita! Evidenzi dei problemi e dei dubbi che anche io ho avuto in corso di scrittura, quindi decisamente legittimi.

    Io non ho avuto problemi durante la mia prova pratica, ma d'altro canto... è una cosa che ho scritto io, per forza io mi ci trovo bene ;)
    Anche altri recensori hanno espresso perplessità riguardo la creazione del personaggio, anche se in direzione opposta alla tua (ovvero: "ma non avrebbe più senso se fossi direttamente io?").

    Ora, per affrontare la cosa, metto bene in chiaro qual è lo scopo di questa esperienza: è un esercizio per capire quali atteggiamenti usiamo nel momento in cui ci troviamo in conflitto con altri, per cercare di sforzarci a utilizzare atteggiamenti diversi in una situazione fittizia (e magari questo ci aiuterà ad avere approcci più equilibrati in futuro, nella vita vera); la scelta fra le due versioni della scena e la scelta finale vogliono stimolare questa riflessione. Mi sta bene che non sia un’esperienza facile, riflettere su sé stessi spesso non lo è, ma non mi sta bene che ci siano difficoltà come quelle da te descritte.
    Il creare un personaggio serve a mettere un filtro, per quanto debole, fra te e gli avvenimenti; sto pensando ormai da un po’ che forse la soluzione giusta sarebbe chiedere di scrivere 2 (o 3) cose che hai in comune con lui/lei, e 2/3 cose in cui siete diversi, prendendo ispirazione da Breaking the Ice in cui lo stratagemma ha una funzione simile. Non è un problema inserire elementi dalla vita reale (come ti è stato spontaneo), però se ciò arriva a creare un blocco perché il vissuto si sovrappone troppo all’immaginato è un problema. Rifletterò ulteriormente su questo nodo, intanto ti ringrazio per averlo approfondito e descritto molto bene.

    Ho pensato molto a lungo riguardo a se inserire un’altra persona o meno all’interno dell’esperienza. Purtroppo ciò andrebbe contro di essa. Il suo scopo è di permettere a una persona di esaminare i propri comportamenti, e o si ha a disposizione una persona assolutamente fidata e capace di cogliere sfumature, sapere da che parte andare e quando fermarsi, o la cosa mi parrebbe troppo invasiva e col rischio di finire per “farsi male”. Se lo scopo fosse diverso, senza dubbio l’inserire altre persone, ravvicinare ancora di più la struttura a Un Penny per i Miei Pensieri, è quello che avrei fatto. Non è un suggerimento stupido o errato, ma che non credo applicabile in questa situazione. È un’esperienza volutamente solitaria e intima, per i motivi elencati.
    Il non scrivere di annotare anche gli “scheletri” degli altri personaggi è stata una svista, in realtà come per le altre cose rilevati andrebbe fatto. Ho pensato a lungo anche se inserire elementi “esterni”, come una lista di situazioni ad esempio, ma per il motivo indicato sopra vorrei incoraggiare ad utilizzare esperienze tratte dalla propria vita (che siano state vissute direttamente, o siano esperienze che conosciamo bene di persone a noi care).

    I tuoi suggerimenti sono sensati e coerenti, ma spingono nella direzione opposta a quella che vorrei ottenere ora. Di sicuro dovrei esplicitare meglio alcune cose, e se hai consigli o idee su come rendere l'esperienza più fruibile all'interno dei limiti che vorrei rispettare sono in ascolto.

    Intanto, grazie di nuovo :)

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  2. In questo momento sto pensando in questi termini: e se ci fossero…

    — Una lista di elementi per inquadrare le scene, lunga, forse anche divisa in tre parti secondo le guide (prendine uno per ciascuna delle due guide che userai nelle due versioni di questa scena): obbligatorio pescare qualcosa da questa lista che *non* ci fosse nell'eventuale scena reale di riferimento, per differenziare chiaramente e prevenire il "blocco" che ho sperimentato io.

    — Una lista di azioni e comportamenti di persone, lunga. Quando il giocatore è incerto su come proseguire la scena, su cosa farebbe ora il protagonista o su come gli altri personaggi potrebbero reagire, prende un elemento da questa lista: un personaggio diverso dal protagonista a questo punto agisce o reagisce così. È simile ad avere l'input di un altro giocatore, senza coinvolgere nell'esperienza un altro giocatore. Anche questa lista potrebbe essere divisa in tre, in riferimento alla guida che il giocatore *sta usando* nella scena in corso: ciascuna sezione contiene comportamenti e atteggiamenti che tendono a mettere in crisi quella guida, rendendone inadeguato il possibile spettro di reazioni. Ciò aiuta a portare la scena verso una chiusura.

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