Sono in ritardo nel mettere per
iscritto le recensioni, ma non nel farmi un’opinione sui giochi.
Per il ciclo “valutazioni del Game Chef 2014 italiano” proseguo
con “La Città di Giuda”, di uno o più autori che si presentano
sotto lo pseudonimo “Daimon Games”. Dai dati di contatto posso
desumere nome e cognome di una persona che, peraltro, conoscevo solo
di nome, ma per il resto questo è il mio primo incontro con
DaimonGames: in un secondo tempo probabilmente scaricherò e leggerò
i vari giochi proposti sul suo/loro sito.
Presentazione
“La Città di Giuda” è un gioco di ruolo di impostazione
alquanto tradizionale, incentrato sulle violente e pericolose
avventure di un manipolo di mercenari affiliati all’organizzazione
paramilitare del Pugno di Ferro, ambientato in una versione fantasy
dei regni crociati nel Levante medievale. I meccanismi e gran parte
della struttura sono una modificazione di quelli di Apocalypse World
(l’omaggio è evidente, seppur non esplicitamente dichiarato).
Il tutto è presentato come due fogli fronte-e-retro
competentemente impaginati: una scheda del personaggio che riporta
sul retro le regole per il giocatore e un secondo foglio che descrive
l’ambientazione e presenta le istruzioni per “il Master”. Con
ciò sembra inquadrarsi nel filone di quei “micro-giochi”, come
Lasers & Feelings oppure Ghost Lines di
John
Harper o Cthulhu Dark di
Graham Walmsley, che attraverso rimandi ad una consolidata
tradizione orale cercano di presentare un “manuale” quanto più
completo possibile nel minimo dello spazio (e in ciò non sono da
confondere con altri “micro-giochi” in cui l’esposizione
incompleta è considerata parte del design, come Ghost/Echo sempre di
Harper, o in cui è il focus molto definito a consentire la brevità
di esposizione, come
What is a
Role-playing Game? di Epidiah Ravachol). L’impatto visivo è
gradevole sullo schermo, ma, poiché i due fogli sono chiaramente
destinati ad essere stampati, temo che la scelta del testo bianco su
fondo nero non sia stata lungimirante.
Un’impostazione tradizionale
Quando parlo di impostazione “tradizionale” mi riferisco
principalmente al gruppo di personaggi alleati fra loro, ciascuno di
proprietà di un singolo giocatore, che affrontano una sequenza di
“avventure” dal contenuto spesso violento. Aspetti tecnici
generalmente collegati alla medesima tradizione, e presenti infatti
anche ne La Città di Giuda, sono il ruolo del “game master” che
ha il controllo assoluto su tutti i personaggi secondari, gli sfondi,
i retroscena, ecc. e gioca anche un ruolo chiave di “arbitro”
nelle meccaniche di risoluzione, e la prospettiva di giocare sessioni
multiple con i medesimi personaggi, senza un’indicazione a priori
di quando il gioco debba concludersi.
“Tradizionale”, per definizione, significa solido, perché ben
collaudato; significa anche individuare un implicito target del gioco
in coloro che in quella tradizione si riconoscono. Non sono estraneo
a questa tradizione: è l’ambiente da cui provengo, e in essa mi
sono riconosciuto per molti anni. Ragion per cui mi sento in grado di
giudicare gli aspetti più tecnici de La Città di Giuda tenendo
conto della fascia di pubblico a cui mi sembra essere rivolto.
L’aderenza ad una tradizione, beninteso, può portarsi appresso
anche dei vizi radicati. Nel caso de La Città di Giuda, per esempio,
mi colpisce negativamente il ricorrere di espressioni quali “a
insindacabile giudizio del Master”… Perché mai occorre
specificare “insindacabile”? Se si “spreca” una parola per
questo, quando lo spazio sulla pagina è tanto tiranno, secondo me
significa che ci si aspetta (come un fatto del tutto normale) una
situazione di conflittualità fra i giocatori al tavolo.
Personalmente io non credo (non più) che si possa pretendere di
giocare in una situazione in cui un giocatore contesta le decisioni
di un altro: in un ambiente di gioco “sano”, a mio avviso, tutte
le decisioni sono appellabili, ma nessuna viene mai contestata in
modo capzioso, perché sussiste una solida unanimità di intenti
(senza la quale il gioco di ruolo sarebbe una fatica invece che un
piacere).
Ho l’impressione che, come testo, La Città di Giuda sia diviso
tra due “anime” che cercano di trascinarlo in direzioni diverse:
l’esempio di Apocalypse World e le aspettative della tradizione.
La meridiana delle azioni
La “meridiana delle azioni” costituisce la più appariscente
variazione rispetto alle meccaniche di base di Apocalypse World. Si
tratta comunque di un metodo per risolvere o indirizzare un conflitto
determinando in quale di tre “fasce” (dalla più favorevole alla
meno favorevole al personaggio del giocatore che tira i dadi) si
collocheranno le conseguenze di una mossa, ma il funzionamento della
meridiana promette maggiore character-effectiveness (probabilità che
il personaggio “abbia successo”) a quei giocatori che manifestano
maggior varietà di modi d’agire.
Una possibile applicazione è in un contesto, come l’ho
definito, pienamente “tradizionale” e per certi versi
conflittuale, in cui il “successo” nell’azione è ambito,
mentre la varietà di descrizione è vissuta come una “fatica” e
i giocatori tendono quindi a ripetere sempre le stesse frasi
formulaiche. In tal caso, la struttura della meridiana è un
incentivo (sicuramente migliore di un “bonus all’interpretazione”)
ad escogitare qualcosa di sempre diverso, adeguandosi alle
restrizioni che l’attuale posizione sulla meridiana impone. Alla
lunga, però, poiché il difetto nel caso in esame sta nella
discrepanza di obiettivi estetici fra i giocatori, un meccanismo di
gioco non potrà risolverlo davvero e si ricadrà, semplicemente, in
un formulario più ampio.
Le modalità d’azione scritte sulle “ore” della meridiana
sono dei descrittori vaghi che ricordano “caratteristiche” del
personaggio in giochi di ruolo che definirei di formulazione
superata: attingono alla visione stereotipata di una persona
fratturata in qualità quantificabili, per cui “agire con
intelligenza” è cosa distinta dall’agire “con coraggio”…
Tuttavia, la rotazione sulla meridiana è comunque un passo avanti
evolutivo rispetto ai sistemi di gioco in cui queste qualità erano
fissate alla creazione del personaggio, così che il personaggio di
un giocatore era premiato se agiva sempre e solo “con intelligenza”
e un altro sempre e solo “con coraggio”. Ma le vere potenzialità
latenti di un meccanismo come questo sono ben altre, ancora poco
sfruttate ne La Città di Giuda…
Una delle modalità d’azione, infatti, è diversa dalle altre:
“stregoneria” (sul numero 9). La mia interpretazione è che usare
“stregoneria” come modalità d’azione costi sempre e comunque
un punto di Dannazione (un prezzo salato). Ed ecco ciò che secondo
me è cruciale: le modalità indicate sulla meridiana sono il
corrispettivo delle “mosse base” di AW. La scelta autoriale di
cosa scrivere in corrispondenza dei vari numeri indirizza e confina
le azioni dei personaggi entro limiti che definiscono il “mondo”
del gioco, e può anche forzare i giocatori verso scelte importanti e
difficili. Questo è un potenziale che mi piacerebbe vedere più
consapevolmente utilizzato.
Per prima cosa, però, sarebbe urgente trovare un linguaggio per
indicare *quando* fare ricorso alla meridiana. Al momento il testo
dice: “Tutte le azioni, compreso colpire un nemico, ucciderlo o
metterlo fuori combattimento, vengono eseguite sulla Meridiana”; e
“Quando un personaggio compie un’azione, come prima cosa deve
dichiarare cosa intende fare e come farlo, scegliendo il valore
appropriato sulla Meridiana delle azioni.” La scelta di parole,
secondo me, è infelice. Intendere “tutte le azioni” alla lettera
sarebbe semplicemente inapplicabile, il che fa di “azione” un
termine estremamente ambiguo: io sceglierei di leggerlo come
“conflitti”, ma potrebbe parimenti essere inteso come “quando
lo dice il master”. In definitiva, davanti a un testo del genere
ogni tavolo deve trovare da sé il proprio standard.
Fasi lunari, missioni e preparazione
Anche per quanto riguarda il contenuto delle sessioni ciascun
tavolo è lasciato a decidere da sé il proprio standard, e questo
rappresenta una lacuna importante. Di momento in momento, il master
ha degli obiettivi da porsi (“Dipingi uno scenario fantastico, ma
usa il sovrannaturale con parsimonia. Trasmetti un senso di mistero e
minaccia.” ), più che avere dei principi cui attenersi per
raggiungerli. Più in generale, mi sembra che i tre livelli di
“agenda” (obiettivi), “principles” (principi) e mosse
dell’MC, propri di Apocalypse World, siano stati a volte
rimescolati fra loro nei paragrafi “Scenario”, “Le tue armi”
e “I tuoi colpi”: enunciazioni di principio come “Tutti hanno
un prezzo” e “Usa il pugno di ferro nel guanto di ferro” non
sono ben raggruppate con mosse quali “Inducili in tentazione ” e
forse dovrebbero invece trovarsi a un livello intermedio con altri
buoni
principi come “Sii
pronto a cambiare idea e a essere sorpreso. ”
Bello il “calendario lunare”, controparte della meridiana, su
cui determinare casualmente per ciascuna sessione di gioco l’influsso
e la potenza delle forze del male. Trovo lo spunto affascinante, in
particolare per l’esplicita rinuncia al controllo: immaginando me
stesso come master del gioco, il lancio del dado per determinare la
fase lunare avrebbe per me sia il piacevole valore psicologico di
scaricare sul caso la responsabilità per la pericolosità dello
scenario, sia il potente valore rituale di affermare il potere
immaginario delle forze del male come qualcosa di superiore alla
possibilità di controllo dei giocatori tutti, me compreso. Peccato
invece che le fasi lunari, poi, si traducano meccanicamente solo in
occasionali modificatori negativi sulla risoluzione delle azioni: una
parte di me vorrebbe vedere qualcosa di più integrato, le due
“ruote” girare insieme come un unico meccanismo. In alternativa,
preferirei che la fase della luna non toccasse mai direttamente il
meccanismo di risoluzione, ma che invece si riflettesse
esclusivamente sul contenuto degli scenari.
Il Pugno di Ferro, di cui i PG per definizione fanno parte, è
un’organizzazione studiata apposta per non avere mai problemi di
“adventure hook”: al contempo mercenari ai limiti della legalità,
ma obbedienti a una gerarchia (“Il prezzo viene concordato con gli
ufficiali del Pugno di Ferro e non con i personaggi”) e ammantati
dell’aura di un ordine militante che combatte i demoni. Questa
caratterizzazione consente al master di mettere i personaggi dei
giocatori di fronte a un incarico, qualunque esso sia, perché tali
sono gli ordini, applicando la motivazione della lealtà militare
anche a missioni che di militare non abbiano nulla. È una soluzione
intelligente alle problematiche tradizionalmente associate con il
“gruppo di avventurieri”.
Ma rimango con la domanda: queste missioni vanno in qualche modo
“preparate”? L’accenno a ricerche “sul web” di “mostri
mitologici” mi fa pensare a un master che, qualche tempo prima
della sessione, prepara in solitudine degli appunti, con una
“missione” che poi assegna ai PG attraverso la gerarchia del
Pugno di Ferro. Ma allora, come si preparano? Senza indicazioni su
quanto e cosa decidere, scrivere, senza una scaletta, una procedura,
resta in bianco una parte centrale del game design, rimettendosi in
pratica (come per l’indicazione di quando ricorrere ai dadi) alle
tradizioni di gioco già esistenti.
Se è prevista preparazione, oltretutto, questa come si concilia
con il calendario lunare? Dovrei tirare il dado per stabilire la fase
lunare in anticipo (diciamo, alla fine della sessione precedente) e
di conseguenza preparare uno scenario adatto alla fase lunare che
verrà (un problema puramente umano, senza interferenza delle forze
del male, se è il plenilunio; un diretto attacco demoniaco nel mondo
terreno al novilunio)? Oppure dovrei escogitare uno scenario
“agnostico” rispetto alla fase lunare, e solo all’inizio della
sessione tirare il dado? In quest’ultimo caso, dovrei preparare uno
scheletro di scenario che, a seconda della fase lunare, andrà
cambiato in corsa in modi specifici. Entrambe le prospettive sono
intriganti, ed è anche per questo che mi piacerebbe conoscere la
metodologia impiegata dall’autore o dagli autori al loro tavolo, e
vederla sintetizzata nei fogli di regole.
Se, viceversa, ci si aspetta che il contenuto del gioco sia
interamente improvvisato senza preparazione, allora alle fasi lunari
potrebbero corrispondere delle linee guida, dei semi o degli spunti.
Forse anche sezioni differenziate nella lista delle mosse del GM,
“colpi” speciali disponibili solo sotto una certa luna? Sarebbe
anche molto utile avere un punto di partenza: delle linee guida per
la prima sessione, per come usarla per dare il via al gioco e
improvvisare di conseguenza gli scenari delle sessioni successive.
Magari perfino una “prima missione” prefissata, un punto di
partenza fisso per tutti i gruppi di gioco, con linee guida su dove
la “storia” creata insieme possa poi dirigersi a seconda delle
prime scelte fatte dai giocatori.
De brevitate
A molte delle critiche che ho fin qui formulato in questa
recensione, evidenziando lacune nel design, si potrebbe tentare di
replicare che sono vuoti di esposizione dovuti all’esiguità del
testo. Senza dubbio La Città di Giuda si presenta come un “libro”
molto piccolo; e invero questo è un gran pregio, perché all’atto
pratico i libri vanno letti, ricordati e continuamente consultati
come riferimento e tutte queste operazioni diventano più lente e
difficili quanto più grande ne è la mole. Tuttavia, a seconda di
come si ottimizza la presentazione delle informazioni, lo spazio di
quattro pagine può contenerne da poche a moltissime: da questo punto
di vista, c’è margine per migliorare, tagliando delle ridondanze e
ricavando così lo spazio per comunicare ciò che manca.
La prima facciata occupata da una “scheda del personaggio” è,
allo stato attuale, un’occasione mezza sprecata. Le annotazioni a
margine dei vari spazi in cui scrivere, infatti, trasmettono già
gran parte delle regole d’interesse per il giocatore, e in
particolare la quasi totalità dei meccanismi di risoluzione delle
azioni. Perché, allora, le stesse regole sono ripetute sul retro
della pagina, in forma più discorsiva? Suggerirei di eliminare
questa ripetizione, controllando che sulla facciata “scheda” ci
sia tutto il necessario, e probabilmente spostando qui (lo spazio per
farlo non manca) anche le regole relative all’evoluzione del
personaggio (tutto ciò che è punti Esperienza, Fato e soprattutto
Dannazione).
Lo spazio così ricavato sul retro del foglio per tutti i
giocatori potrebbe essere utilizzato per le informazioni di
ambientazione (che non c’è particolare ragione di riservare al
GM), e così sul foglio del GM si libererebbe spazio per trattare
della preparazione degli scenari e simili questioni irrisolte.
Qualche pizzico di speziato oriente
C’è molto che mi lascia perplesso nel, pur breve, trattamento
dell’ambientazione. Forse l’autore o gli autori si sono cimentati
nel genere fanta-storico senza fare ricerche adeguate… Fare poche
ricerche sarebbe anche veniale nella tempistica di un Game Chef, ma
quando si coinvolgono elementi di storia e geografia del mondo reale
senza conoscerli bene si rischia di scadere (come qui purtroppo
accade) in stereotipi triti ed anche offensivi. Uscire dagli ambiti
che meglio si conoscono, quando il tempo per informarsi a fondo
manca, è purtroppo un grosso azzardo: si rischia di sprecare gli
spunti più interessanti seppellendoli sotto la vergogna di
un’esecuzione superficiale, grossolana.
Lo spunto de La Città di Giuda parte da una lettura letterale
della storia religiosa cristiana (l’intervento di Gesù per salvare
l’umanità tutta dal peccato originale) e qui innesta lo
stravolgimento che dà inizio a una storia alternativa: Gesù non
risorge dalla morte, e di conseguenza tutto cambia. Da un punto di
vista sovrannaturale, non essendo Gesù riuscito a “vincere la
morte”, le forze del male rimangono libere di intervenire
direttamente nel mondo, anche manifestandosi come mostri e demoni in
forma fisica che in questo gioco sono i più temuti antagonisti. Dal
punto di vista fanta-storico, invece, è la religione cristiana a non
costituirsi, cosa che attraverso una serie di salti logici porterebbe
alla situazione etnica e politica descritta nel testo d’ambientazione
e in qualche modo anche all’esistenza del Pugno di Ferro.
Parlo di “salti logici” non solo perché l’effettiva e
comprovata resurrezione di Gesù non mi sembra premessa storicamente
necessaria alla nascita del suo culto, né semplicemente perché mi è
poco chiaro come la figura di Giuda “simbolo di una condizione
umana destinata a inevitabile dannazione” diventi, con queste
premesse, oggetto di “adorazione” (anche se trovo molto
suggestiva l’immagine di questo cupo culto dell’impiccato,
simboleggiato dall’albero e dal cappio di corda)… Potrei anche
chiedermi come, da questa premessa, discenda una maggior violenza
degli “eredi del decaduto Impero Romano” nella regione
palestinese (“Gerusalemme distrutta negli scontri”), o che
l’ebraismo sia stato “estirpato” dalla dominazione romana
anziché inglobato come minoranza religiosa; per un attimo mi sono
domandato perfino come “misteriosi accenni alla cabala” possano
essere sopravvissuti a questo scempio se è vero che, come ricordo,
la cabala è uno sviluppo medievale dell’ebraismo e quindi in epoca
romana non esisteva ancora. Ma no, non sono uno storico del Vicino
Oriente antico (sono uno storico del cosiddetto “Estremo Oriente”)
e non mi fisserò su nessuno di questi punti pretendendo d’aver
ragione: non senza prima aver fatto ricerche specifiche. Licenza
d’artista è licenza d’artista, oltretutto, e qui siamo
dichiaratamente di fronte a un “fantasy”. Quello che mi cruccia è
ben altro, invece, e non penso occorra una laurea in Storia per
accorgersene…
La vera domanda è, se mai: date queste premesse, da dove salta
fuori un PG biondo di nome Federico? Visto che le “invasioni
barbariche” non sono un evento del passato, ma sono ancora in
corso, e visto che i “Selvaggi” provenienti dal nord in questo
gioco hanno una caratterizzazione del tutto a-storica, non si capisce
allora da dove gli abitanti della Città di Giuda “discendenti dai
romani” abbiano preso la loro “pelle più chiara”, tratti come
“capelli biondi” o “occhi chiari”, e i loro nomi
franco-germanici (tutti i nomi d’esempio nella relativa lista
tranne “Gaia”, che è latino). Per contro, i “Locali”, di cui
si evidenzia il retaggio “semitico”, sono caratterizzati
esclusivamente con stereotipi razzisti come “pelle olivastra”,
“naso appuntito”, “superstizioni” e “una speziata saggezza
mediorientale”… Una **speziata** saggezza mediorientale?! Come
dicono i giovani d’oggi: FACEPALM.
I nomi franco-germanici non sono spiegabili, punto. Il colore
della pelle, purtroppo, sì, ma preferirei il contrario. L’autore o
gli autori del gioco stanno evidentemente aderendo ad una dottrina
hollywoodiana delle “razze” per cui i “romani” erano
“bianchi” (non sono forse gli antenati diretti dei “bianchi”
europei?), e non, come vorrebbe il buonsenso, dello stesso “colore”
di tutti gli altri abitanti del bacino del Mediterraneo. Simili
fandonie hanno implicazioni politiche non trascurabili quando le
racconta Hollywood, ma hanno anche altre, gravi implicazioni
politiche quando ce le raccontiamo noi italiani, perché la
convinzione di “discendere” in qualche misura dai romani è
profondamente radicata nella nostra cultura popolare, non
un’esclusiva della retorica fascista. Immaginarci un impero romano
di uomini “bianchi” che colonizza o invade una Palestina abitata
da persone “olivastre” per noi italiani non è un errore
“neutrale”, perché corrisponde a un immaginario razzista tuttora
strumentalizzato nel discorso politico (per esempio dalla Lega):
l’idea che “noi siamo bianchi”, mentre “altri”, provenienti
da oltre un confine arbitrario tracciato a Sud di dove stiamo “noi”,
“sono negri”. Attenzione, quindi.
Per di più, forse l’autore o gli autori non si rendono conto
(diciamo che spero non se ne rendano conto) di altre possibili
implicazioni politiche delle loro scelte di nomenclatura.
Storicamente l’associazione con la figura di Giuda è stata
utilizzata nell’Europa cristiana per vilificare, simbolicamente, la
minoranza ebraica; in questa ambientazione, invece, in cui Giuda
viene in qualche modo riscattato (sia pure come simbolo di ogni
sfiga, ecc. ecc.) il nome “Uomini di Giuda” non appartiene ai
“locali”, ai “semiti”, ma a “bianchi” europei biondi con
nomi germanici. “La dominazione romana ha estirpato l’antico
ebraismo ”, dice il testo: sembra che l’abbia estirpato così a
fondo da annullare ogni possibile identità ebraica, spargendo un po’
di sale sulle rovine bruciate per buona misura. Ci restano solo dei
“Locali”, popolazioni di etnia “semitica” ma a cui non sembra
necessario dare un vero e proprio nome.
Poi ci sono i “Selvaggi”… Perché non “barbari”, che
almeno è termine comunemente usato nella storiografia tradizionale?
Tanto, il testo contiene comunque tutti e tre gli altri ingredienti:
un termine intrinsecamente offensivo come “selvaggi” rivolto ad
una popolazione umana ce lo si poteva risparmiare. Qui, comunque, la
faccenda si fa ancora più confusa, perché è impossibile
individuare un corrispettivo storico per queste genti. Fanno le veci
degli invasori dell’impero romano (storiella forse un po’ datata,
ma è come ce l’hanno insegnata a scuola), ma non possono essere
popoli germanici, visto che i discendenti di Roma in questa
ambientazione hanno *già* nomi e tratti fisici germanici, che
denotano un mescolamento già avvenuto. “Sono calati dal nord”,
colpendo tutte le vestigia dell’antico impero (diamo pure per
scontato che, senza il cristianesimo, con ci siano stati neppure un
Costantino, un trasferimento della capitale in Grecia e un Impero
Romano d’Oriente). La loro caratterizzazione esteriore è uno
stereotipo razzista del popolo “fiero e primitivo”; cito: “alto,
possente, imponente, capelli lunghi, lunghe trecce, occhi spiritati,
pitture tribali (sic), tatuaggi rituali.” Non se ne specifica il
“colore”, ma potrebbero essere tanto celti quanto apache quanto i
cimmeri di R. E. Howard. Di sicuro i loro nomi (“Rumore di Tuono,
Sole Splendente, Scintilla di Fuoco, Fratello dei Lupi, Miraggio
Ingannevole”) sono quelli degli “indiani” di qualche vecchio
film western. L’ambientazione li propone come una minaccia esterna
che costringe le altre due etnie a collaborare, ma è chiaro (dai
nomi e dai tratti appena riportati) che agli autori piacciono, non
sono dei “cattivi”: e infatti il Pugno di Ferro, giusto per far
vedere quant’è cosmopolita e trasgressivo, li accoglie nelle
proprie fila, rendendo disponibili i “Selvaggi” come terza e
“strafiga” opzione nella creazione dei PG.
L’ambientazione promette di essere una versione fantasy di
Gerusalemme medievale e del Levante, insomma, ma per come viene
trattata disattende completamente le aspettative. Il mio consiglio
agli autori è di ripartire da zero: magari di ambientare *per
davvero* il gioco a Gerusalemme e dintorni nel Medio Evo, con le
opportune ricerche. Forse nel complesso mosaico sociopolitico dei
regni crociati. E in questa ambientazione potrebbero agevolmente
riutilizzare il comodo espediente del Pugno di Ferro… Potrebbe
trattarsi, per esempio, di un’armata mercenaria che raccoglie
guerrieri di tutte le fedi (cristiani, musulmani, ebrei, ecc.) sotto
la missione comune del combattere il male incarnato sempre e comunque
dalla stregoneria e dalle creature sovrannaturali; una sorta di
Legione Straniera di cacciatori di mostri. In una simile
ambientazione, più vicina alla realtà storica, non sarebbe comunque
un problema recuperare un’idea “di colore” come il culto di
Giuda pentito e suicida (potrebbe essere una dottrina interna al
Pugno di Ferro, o esistere come organizzazione separata) o come la
mancata resurrezione di Cristo quale giustificazione del potere
demoniaco (checché ne pensino, all’interno della fiction, i
personaggi delle varie fedi).
Mi auguro, insomma, di vedere presto una seconda versione di
questo gioco, in cui ci si sarà sbarazzati degli stereotipi
razzisti.